Quanto è accaduto nell’ Istituto Penale Minorile (IPM) C. Beccaria di Milano ha riacceso i riflettori su una situazione che langue da anni.  Lo stato di abbandono istituzionale da lungo tempo costituito da lavori sulla struttura protratti e dalla mancanza di una direzione stabile hanno contribuito ad alimentare i fatti clamorosi che sono maturati in questa cornice.  

Ma, soprattutto, è mancata una forte proposta educativa, fatta di figure adulte positive, di attenzione ai vissuti dei giovani, di cura personale che li accompagna nella ricostruzione di sé, nel recupero di valori quali il rispetto, l’impegno e la fiducia nella possibilità di un futuro migliore. In maggioranza, infatti, sono giovani con vissuti di abbandono, di violenza, di lotta per la sopravvivenza. Se lasciati a loro stessi non possono far altro che ripetere ad ogni passo l’unica cosa che conoscono: la violenza, lo scontro per ottenere riconoscimento e uno spazio di vita, che si rivela poi una falsa illusione.

All’atteggiamento spesso violento dei ragazzi molti agenti hanno risposto con una violenza maggiore, che è giusto sanzionare. Ma non è questo il punto. Le prime misure adottate non bastano per mettere sotto controllo la situazione. E se anche riusciranno, lo sarà solo temporaneamente. Intanto le violenze interne non si fermano. Se ci si focalizza sulle violenze e sui modi di contenerle, non ci rendiamo conto che queste sono l’esito inevitabile di un processo che dobbiamo considerare nel suo complesso, non solo guardarne la fine, senza far alcuna attenzione all’origine.

Per iniziare un vero cammino di maturazione i giovani hanno bisogno di adulti autorevoli. Nel suo significato etimologico, la auctoritas indica la capacità di far crescere; non esprime l’idea di un potere direttivo, ma di una vera forza generativa.

«L’educatore ideale cerca di farsi amare se vuole farsi temere. Egli conseguirà questo grande fine con le parole, e più ancora coi fatti, se farà conoscere che le sue sollecitudini sono dirette esclusivamente al vantaggio dei giovani. Dove è possibile, non si farà mai ricorso alle punizioni. Fra i giovani costituisce una punizione quella che viene considerata come tale, per esempio perdere la considerazione delle persone che stima. Inoltre le punizioni non devono mai essere inflitte in pubblico ma privatamente, in assenza dei compagni, usando la massima prudenza e pazienza per far sí che il giovane comprenda il suo sbaglio e accetti la correzione. Assolutamente vietato qualsiasi ricorso alla violenza, perché non solo è proibito dalla legge, ma irrita i giovani e avvilisce l’educatore. Gli educatori debbono far conoscere bene le regole, i premi e le punizioni stabilite in modo che il giovane non si possa scusare dicendo: non sapevo che ciò fosse comandato o proibito. Ogni superiore deve adoperarsi per conoscere la loro vita passata, la maniera di vivere, si mostra loro amico, li lascia parlare molto, ma parla poco, ed i suoi discorsi sono brevi esempi, massime, episodi e simili»[1].

Ben lo sapeva Don Bosco che usò questo metodo preventivo piuttosto che quello repressivo. Alla fine del suo lavoro disse: «Se nei nostri luoghi di formazione si metterà in pratica questo sistema, credo che si potranno ottenere grandi vantaggi senza ricorrere né alla violenza, né ad altre punizioni. Da circa quarant’anni lavoro con i giovani, e non ricordo d’aver mai usato punizioni di alcun genere, e con l’aiuto di Dio ho sempre ottenuto non solo quanto era giusto, ma anche quello che semplicemente desideravo, e ciò anche da quei giovani, nei quali sembrava persa ogni speranza di buona riuscita».

Come realizzare questa modalità educativa all’interno di un Istituto Penale Minorile (IPM), che raccoglie tanti giovani disadattati nel mondo di oggi? Innanzitutto con presenze di adulti che sappiano guadagnare la loro fiducia, stando accanto a ciascun ragazzo in modo che senta di essere un valore per qualcuno che lo guarda e si prende cura di lui. Tra i tanti interventi, crediamo sia fondamentale poter disporre di un numero adeguato di educatori in modo da accompagnare i giovani in piccoli numeri, di agenti con una formazione adeguata a stare con i giovani, e di una varietà di contatti con persone esterne che sappiano essere riferimenti sani.

Lascia uno spiraglio di speranza la lettera di Girolamo Monaco, direttore dell’IPM di Treviso, che tra l’altro scrive: «Io non posso nascondere che la violenza fisica, psicologica, relazionale e gestionale degli individui dentro le strutture (la violenza di chi sta dalla parte del giusto e la violenza di chi sta dalla parte del torto) è normalizzata dai vuoti di presenza, di compagnia, sostegno, indirizzo, supporto e guida (tutto quello che è il vero senso del potere: la violenza è quindi, secondo la mia trentennale esperienza dentro le carceri minorili, un “vuoto del potere” quando “non guarda” i suoi uomini, quando “non guarda” i suoi utenti)»[2].

E occorre ricordare che i giovani sono ospiti di un Istituto Penale Minorile non di un Carcere Minorile. Non è solo questione di parole: lo scopo principale dell’Istituto Minorile è garantire «i diritti soggettivi ad un’armonica crescita psico-fisica, allo studio, alla salute, con particolare riguardo alla non interruzione dei processi educativi in atto e al mantenimento dei legami con le figure significative»[3].

Ma intanto costatiamo che dopo il decreto Caivano gli IPM stanno diventando sempre più Carceri Minorili.


[1] Cfr.  Don G. Bosco, Sistema preventivo, 1877.

[2] Non solo Beccaria. La violenza è dentro tutte le carceri , in HuffPost Italia (huffingtonpost.it)

[3] Ministero della Giustizia, Istituti Penali per i Minorenni (IPM).

Crediti Foto di Ye Jinghan su Unsplash