La politica e il giornalismo, nel loro vistoso scadimento, ci stanno abituando a tutto. Sembra non regga più neppure la soglia della decenza. Tra gli episodi minori e tuttavia eloquenti di tale degrado si iscrive l’uso e l’abuso della figura di Berlinguer ridotto a santino. Facendo un torto a lui, alla sua memoria e semmai avvalorando l’impressione di evocarlo strumentalmente per la sua integrità personale e per la “questione morale” all’epoca da lui sollevata. Parametri anni luce lontani dal tempo presente. Per altro, “questione morale” da lui intesa secondo un’accezione affatto diversa e quasi opposta a quella che sembra dilagare oggi: egli denunciava l’occupazione della società e delle istituzioni da parte di partiti onnivori; oggi – semplifico – abbiamo a che fare con un rapporto incestuoso tra comitati d’affari e politici o amministratori, che arraffano consenso a strascico praticando trasformismo, anche perché sempre meno selezionati da partiti degni di questo nome. Proprio ai partiti spetterebbe infatti un’accurata e metodica opera di selezione e di vigilanza sull’affidabilità di dirigenti ed eletti. Oggi totalmente disattesa.

Sull’uso di Berlinguer merita isolare tre episodi. Il primo: il suo sguardo – espressivo, sia chiaro – ritratto sulla nuova tessera del PD. Tre volte discutibile. Sia perché egli, che certo si adoperò apprezzabilmente per spingere sino all’estremo limite l’autonomia del Pci rispetto al “legame di ferro” con Mosca, tuttavia agì ancora nel quadro della guerra fredda. E il PD non avrebbe potuto nascere a monte del 1989. Sia perché esso fu pensato e realizzato come partito espressione di una pluralità di culture politiche. Sia infine perché, almeno nella sua idea originaria, il PD avrebbe dovuto essere un partito a tutti gli effetti nuovo, non la risultante di un mero patto federativo tra partiti pregressi. Tantomeno come l’assemblamento del ceto politico del Pci con quello della sinistra Dc (quale purtroppo ha finito per essere).  Il secondo episodio ai miei occhi imbarazzante è quello inscenato alla convention di Fdi ove il perfido e smagato La Russa ha chiamato la platea all’ovazione all’indirizzo del vecchio leader comunista, alla presenza compiaciuta della figlia giornalista Bianca, in nome della stima che sarebbe corsa tra Berlinguer e Almirante, il capo della destra post-fascista. Nei giorni a seguire del 25 aprile e delle dispute sull’ostinato rifiuto della Meloni e dei suoi Fratelli a professarsi antifascisti. Come non avvertire il senso di una forzatura? Infine – terzo episodio – lo confesso: mi procura profondo disagio l’approdo di Bianca Berlinguer, che porta quel nome impegnativo, alla corte delle tv berlusconiane. Perché farsi usare in una chiara, furba, munifica operazione politico-comunicativa di Mediaset, dandole modo di spacciarsi per liberale e pluralista, come se il conflitto di interessi e l’organicità alla destra politica fossero dissolti? Possibile non le faccia problema chiudere la sua striscia serale (si dice così?) passando la linea, cioè facendo da traino ai vari picchiatori delle reti Mediaset Giordano, Del Debbio, Porro. Tanto peggio, adottando una postura che trasmette l’impressione che la nota giornalista si consideri una meritoria, eroica “missionaria” della sinistra in campo avverso. Un’illusione e una presunzione. Per tacere dell’insulso teatrino inscenato, in apertura del suo programma settimanale, con un irsuto figuro che tempo addietro la apostrofò come “gallina”. Un umiliante siparietto che, mi si spiega, le frutterebbe qualche punticino di audience, incurante di svilire la sua dignità personale e professionale. Ripeto: con il nome che porta …. Imbarazza me, che con Berlinguer non ho avuto a che fare né personalmente né politicamente. Ma io sono un vecchio moralista impenitente.
Vero è che c’è di peggio per il buon nome e l’iconografia dei vecchi compagni che, generosamente e al prezzo di sacrifici, hanno creduto nel partito che prometteva l’elevazione del proletariato e il sol dell’avvenire. Penso alla fine ingloriosa che ha fatto l’Unità oggi nelle mani di un editore chiacchierato proprietario anche del Riformista che occhieggia a destra e diretto da un giornalista che fa da stabile opinionista nelle tv di Berlusconi e che ha fatto della guerra ai magistrati la sua missione. Ma penso anche al non meno sconcertante approdo di un cospicuo numero di politici della filiera dalemiana a libro paga di Finmeccanica, di Leonardo e del lobbismo nel campo dell’industria delle armi. Una sorta di collettiva attrazione fatale. Passi la conversione al business, ma proprio al campo delle armi?! Curioso, mesto epilogo dei “ragazzi di Berlinguer” (è la loro autodefinizione consacrata in un fortunato saggio) di entrambi i riti convenzionali: da un lato il machiavellismo e lo spirito affaristico della menzionata filiera un tempo orgogliosamente togliattiana (in gran parte passata per il renzismo), dall’altra quella nuovista veltroniana incline alla melassa buonista. Morta l’ideologia, spenti gli ideali; esorcizzato il conflitto, archiviata la lotta per la giustizia. Come se oggi non avessimo a che fare con l’esplosione delle disuguaglianze e con l’estensione della condizione proletaria vecchia e nuova. La quale semmai prescriverebbe alla sinistra un di più di ben intesa radicalità, l’opposto della retorica del riformismo inteso come moderatismo, subalternità, spirito adattivo. Nel pensiero e nell’azione. Azzardo una spiegazione: una cattiva sociologia che, muovendo dalla fondata disamina dell’eclissi del modello fordista e della disarticolazione delle vecchie appartenenze di classe, si spinse sino alla rimozione del conflitto sociale; la subalternità alla ideologia neoliberista e al dogma del pensiero unico; il divorzio, la rottura sentimentale tra una sinistra elitaria e i ceti popolari; più banalmente l’imborghesimento e il cedimento alle lusinghe dell’integrazione/omologazione sociale e culturale da parte della sua classe dirigente. Come dimenticare – per tornare a Berlinguer – il precipitoso, affannato zelo, anche a sinistra, nel rimproverargli la pretesa/presunzione della “diversità comunista”? Giusto rilievo se non si fosse spinto al punto da giustificare il “così fan tutti” e il corrivo adeguamento al declino del costume e dell’etica pubblica. L’abbandono della tensione a custodire una sana differenza nel testimoniare e praticare una qualche coerenza dei comportamenti con gli ideali professati.

  • Franco Monaco

    Pubblicista, già presidente dell’associazione «Città dell’uomo» e parlamentare della Repubblica; fa parte del gruppo di coordinamento della rivista web Appunti di cultura e politica.