La campagna elettorale per le elezioni del parlamento europeo sembra partita con il piede sbagliato (non che sia un fatto sorprendente). In effetti, dei reali problemi dell’Europa, del senso della grande esperienza democratica del voto, di cosa si potranno e si dovranno occupare i nuovi eletti, non si parla che nei ristretti circoli degli addetti ai lavori. La popolazione assiste distratta dai banali giochi di potere dei leader di partito.

Eppure, le occasioni ci sarebbero. Nei giorni scorsi, ad esempio, sono stati resi pubblici i primi risultati di due importanti lavori di consulenza commissionati dalle istituzioni europee, che riguardano largamente gli scenari che si creeranno dopo il voto di giugno. Mario Draghi sta lavorando a un rapporto sulla competitività europea per conto della Commissione di Ursula von der Leyen. Il rapporto sarà consegnato a giugno, ma è stato anticipato in un intervento alla Conferenza di alto livello sul pilastro europeo dei diritti sociali, che si può leggere qui:  https://geopolitique.eu/en/2024/04/16/radical-change-is-what-is-needed/). Enrico Letta ha consegnato invece un rapporto sul funzionamento del mercato interno per conto del Consiglio Europeo dei capi di Stato e di governo (https://www.consilium.europa.eu/media/ny3j24sm/much-more-than-a-market-report-by-enrico-letta.pdf). Due temi ovviamente collegati e intrecciati tra loro, affidati forse non a caso a due personalità italiane, tra cui si può immaginare una certa sintonia e convergenza, evidente anche da quanto finora emerso sulle loro proposte.

In ambedue gli interventi, risulta chiara la premessa: esiste un marcato cambio di contesto, provocato dalle crisi sempre più forti degli ultimi anni (finanza, pandemia, guerra, clima), che hanno accelerato la sensazione di un superamento delle illusioni ideologiche della prima «globalizzazione», dove ci si cullava nell’idea di un mercato globale capace di risolvere ogni conflitto e di diffondere pace e democrazia. Si è rimessa invece in gioco la centralità della statualità nel rispondere ai bisogni di sicurezza e di futuro dei cittadini. E la statualità dei Grandi (Usa e Cina soprattutto) comporta che «essi possono agire come un paese con una strategia», come ha detto Draghi: non così l’Europa.

Nel presentare il suo lavoro, l’ex presidente della Bce ha insistito quindi sul concetto di un necessario «cambiamento radicale» per l’Europa, che ha perso competitività strategica rispetto agli altri grandi della Terra, perché si è «rivolta all’indentro», creando e regolando la competizione soprattutto al suo interno. Per invertire questa rotta, sostiene l’autore, è necessaria una «trasformazione dell’intera economia europea che consenta di contare su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti; un sistema di difesa integrato e adeguato basato sull’Ue; manifatture nazionali nei settori più innovativi e in rapida crescita; e una posizione di leadership nell’innovazione tecnologica e digitale vicina alla nostra base manifatturiera».

Per dirla sinteticamente: non basta più un’Europa che concentri la sua attenzione sulle funzionalità del mercato e sulla concorrenza interna. E questo, considerando la storia e l’approccio di Draghi ai temi economici e politici, è stato giustamente notato come un punto di interesse, una sorta di correzione di rotta incisiva. Ricordate le dure opposizioni agli «aiuti di Stato» e la critica della presenza pubblica nell’economia, ai tempi delle privatizzazioni? Draghi quindi si schiera a favore di una nuova politica industriale a livello europeo, con azioni prioritarie che dovrebbero essere concentrate anzitutto nei settori con la maggiore esposizione alle sfide ecologiche, digitali e di sicurezza. Per far questo occorre a suo parere «un nuovo strumento strategico per il coordinamento delle politiche economiche».

Dal canto suo, il rapporto di Letta aggiunge che uno dei rilevanti problemi del mercato interno europeo è che non funziona efficacemente per i capitali: nonostante le liberalizzazioni imperanti degli scambi finanziari, le esclusive dinamiche di mercato, parcellizzate in tanti soggetti spesso limitati dal livello nazionale, non riescono a mobilitare l’enorme risparmio privato degli europei, in termini efficaci rispetto alle necessità di investimenti strategici nei settori cruciali del futuro. Inoltre, negli stessi campi delicati come l’energia o le comunicazioni, mancano competitori strategici a livello di scala continentale. Quindi, anche secondo Letta ci vuole una svolta, con un rafforzamento delle capacità di decisione europee per favorire investimenti efficaci.

Accogliamo senz’altro con favore questa prospettiva. Ci vuole indiscutibilmente più Europa, e un’Europa che produca crescita. Ma vorremmo integrare questo approccio: occorre infatti anche prefigurare un’Europa diversa. Altrimenti la sfida rischia di non essere colta appieno o di produrre risultati controproducenti. Limitiamoci a sottolineare almeno tre problemi.

Il primo problema è naturalmente noto ai due proponenti, che non sembrano affrontarlo direttamente: in Europa attualmente non c’è la struttura politica e decisionale che possa sostenere una svolta della portata richiesta. Gli incentivi politici tendono a favorire ancora le esigenze nazionali, dato che i governi sono eletti a livello locale. E le opinioni pubbliche non aiutano in questo senso. Non si è ancora riusciti a far percepire largamente che la soluzione di molti dei problemi che angustiano le popolazioni europee possa essere perseguita con un aumento delle capacità dell’Europa di divenire un soggetto capace di rispondere alle sfide, oggettivamente enormi. Quindi, ogni ambizioso progetto di rilancio della capacità di autonomia strategica, di ricerca, innovazione e produzione europea richiederebbe una modifica sensibile del modello politico attualmente consegnatoci dal passato. Cosa difficilissima, naturalmente, ma il dilemma è il solito: riforme interne all’assetto esistente (ma esiste la possibilità?), oppure un salto di qualità rivoluzionario con la costruzione di un assetto diverso (ma esiste la capacità?). Tertium non datur. Letta accenna al fatto che, se non si supera l’unanimità, qualche Stato dovrà pur decidere di andare avanti in formazioni ridotte, ma l’orizzonte di questo dilemma resta sospeso.

Il secondo problema è che ambedue i rapporti insistono soprattutto sulla dimensione della difesa come elemento primario della esigenza di politiche industriali europee. Letta ha usato anche in pubblico il riferimento al fatto (una «vergogna») che gli Stati europei comprano apprestamenti militari all’esterno dell’Unione per il 78%. È un elemento comprensibile, dato il contesto. Ma è assolutamente rischiosa questa polarizzazione unilaterale dello sforzo comune richiesto ai paesi del continente. Non vogliamo una Europa fortezza concentrata strategicamente sulla produzione di armi. Già negli ultimi dieci anni le spese militari dei Paesi Nato membri dell’Unione Europea (considerando le definizioni e i dati Nato) sono aumentate di quasi il 50%, passando da 145 miliardi di euro nel 2014 a una previsione di bilancio di 215 miliardi nel 2023 (a prezzi costanti, fonte: sbilanciamoci.info).  L’industria per la difesa consuma capitali che potrebbero essere determinanti in altri settori strategici, quali la riconversione verde o la sanità. Al netto delle economie di scala raggiungibili con investimenti coordinati, non possiamo pensare di costruire il futuro tecnologico dell’Europa sulla centralità delle fabbriche di armamenti.

Il terzo problema è che una nuova concentrazione di risorse per una politica industriale europea, se mai si realizzasse, dovrebbe affrontare anche la questione del modello di crescita economica, non affidando le risorse aggiuntive mobilitate dall’Unione solo ai giganti dell’industria privata. Già rispetto alla pandemia, l’esperienza dei vaccini ha raccontato di come si sia riusciti ad affrontare il problema solo attraverso una remunerazione spropositata di Big Pharma (quando i vaccini erano stati prodotti anche sulla base di una quota notevole di ricerca pubblica e gratuita). Occorrerebbe quindi modificare l’approccio, valorizzando ad esempio anche strutture di ricerca e sperimentazione pubbliche sul modello Usa, basate sulla condivisione dei dati e dei risultati della ricerca, oltre che degli spillover tecnologici. La concentrazione delle grandi corporation sul valore di mercato per i propri azionisti (e alti manager, lautamente remunerati) è in contrasto con un modello di tutela più equa degli interessi, che contribuisca ad affrontare il senso di straniamento e di marginalizzazione di ampi settori popolari in Europa. Fin quando non fermeremo la spinta a marginalizzare il lavoro nelle decisioni strategiche e nella remunerazione dei risultati della produzione, non avremo una crescita più equilibrata e condivisa. Anche Enrico Letta riconosce nel suo rapporto l’importanza del dialogo sociale come elemento significativo del mercato comune. Ci vuole però di più. L’Europa anche a questo proposito avrebbe nella sua storia i geni per costruire un sistema diverso e molto più ricco sia rispetto a quello market-oriented americano che a quello state-oriented cinese. Molti spunti in proposito sono in un agile volumetto edito dal Forum disuguaglianze e diversità coordinato da Fabrizio Barca: Quale Europa, Donzelli editore, da poco in libreria.

Questi tre aspetti sono cruciali per l’Europa del futuro. Proprio perché le istituzioni europee sono apparse farraginose e incapaci di affrontare efficacemente le sfide, hanno perso credibilità anche in Italia, uno dei paesi storicamente più europeisti. Proprio per l’eccesso di retorica bellicista si sta perdendo la coscienza di una originalità storica del ruolo dell’Europa comunitaria nel mondo degli ultimi settant’anni. Proprio perché si sono sentiti abbandonati in preda al potere di un capitalismo senza freni, una parte delle classi popolari ha messo in questione i legami comunitari, il senso civico e anche la sensibilità democratica e ha cominciato a votare senza problemi per partiti populisti e di destra radicale e nazionalista. Tutto ciò ha senza dubbio indebolito anche la legittimazione e il consenso verso il progetto europeo. Per questo motivo, l’attenzione per la crescita e una nuova strategia per la competitività europea – giustamente richiesta da questi importanti documenti – va assolutamente integrata con una visione che provi ad essere al contempo incisiva, pacifica e inclusiva.

(Foto di Oliver Cole su Unsplash)

  • Guido Formigoni

    Professore di Storia contemporanea e Prorettore alla Qualità, Università IULM - Milano. Coordinatore della rivista web Appunti di cultura e politica.