Ha fatto cento, ma non centouno. Alludiamo a Recep Erdoğan, presidente della Turchia. L’election-day amministrativo del 31 marzo, anno centouno della Repubblica turca, gli ha regalato una dura sconfitta. Un anno fa, centesimo anniversario, si era aggiudicato il terzo mandato, mentre il suo partito (Giustizia e sviluppo, Akp) aveva conquistato, ma a fatica, la maggioranza relativa nella Grande assemblea nazionale. A infliggerli la prima sconfitta elettorale della sua carriera politica il rivale di sempre il Partito repubblicano popolare (Chp), di orientamento socialdemocratico, fondato dal creatore della Repubblica.
Kemal Ataturk si è ripreso la scena. Con un sussulto di secolarità l’elettorato turco, e qui sta una prima ragione della sconfitta, ha mandato uno stop alla crescente islamizzazione del Paese. Nata laica, laica intende restarci. Questo il messaggio inviato da laici e kemalisti a Erdoğan. Li ascolterà? Dalle prime reazioni del Presidente e dei suoi commentatori sembra proprio di no. L’agenda di governo è quella sia in politica interna sia in quella estera, e tale resterà. In politica interna vi è il grosso nodo della riforma costituzionale. Ventilata sin dall’inizio del nuovo mandato presidenziale (maggio 2023), non è ancora stata precisata nei contorni. Una cosa è certa, non toccherà i poteri del presidente. Dovrebbe essere più garantista nei confronti dei cittadini, comportare un maggior rispetto dei diritti umani e via dicendo. Nelle intenzioni di Erdoğan avrebbe dovuto abolire il vincolo dei due mandati presidenziali, ma la sconfitta elettorale la rende difficilmente praticabile e anche poco conveniente per l’Akp, per via del rischio di trasformarla in un regalo al Chp. La riforma costituzionale resta una priorità e la sua struttura dovrebbe essere resa pubblica a breve. Neppure in politica estera vi sono da attendersi significativi cambiamenti. Ha bisogno della Russia, della Cina, dei Paesi arabi del Golfo, per sostentare la sua economia. La sconfitta potrebbe, tuttavia, indurre Erdoğan a un atteggiamento più conciliante verso Stati Uniti ed Europa, nel tentativo di recuperare voti dall’elettorato laico, pro-occidente e pro-Ue. Un primo test sarà rappresentato da come si muoverà in merito alla nomina del nuovo Segretario generale della Nato.
Non solo la Turchia laica ha preso le distanze dal Presidente ma, seconda ragione della sconfitta, pure quella dell’islamismo più radicale. Così il Yeniden Refah Party (Benessere di Nuovo), fondato nel 2018 da Fatih Erbakan, figlio di quel Necmettin Erbakan, già premier e maestro spirituale e politico di Erdoğan, ha svolto una campagna accusandolo di corruzione e di doppio standard con Israele nella crisi di Gaza, condannandone l’intervento militare, ma continuando a fare affari con il governo di Netanyahu. Il Yrp si è guadagnato un 6,2 per cento su base nazionale, ma raggiungendo percentuali tra il 20 e il 30 per cento in province anatoliche, quali Konia e Yozgat, dove l’Akp deteneva quote oltre l’80 per cento.
Ora il Chp, e non era mai successo, è il maggior partito del Paese, con un balzo di oltre 12 punti percentuali, rispetto a nove mesi fa (quando gli elettori votarono per le presidenziali e le parlamentarie) ha oltrepassato il 37 per cento, lasciandosi indietro di due punti percentuali l’Akp. Il partito del Presidente, con il 35 per cento ha confermato il risultato delle ultime politiche, ma perso otto punti in raffronto alle amministrative del 2019. La sfida maggiore si giocava nelle grandi città: Istanbul, Ankara, Izmir. Quest’ultima è storicamente laica, di fatto inespugnabile per un partito come l’Akp. Contendibili, per contro, le altre due. Cinque anni fa se le erano aggiudicate i repubblicani, strappandole agli islamisti del partito di governo. Erdoğan ci ha messo la faccia per riconquistarle. Ha tirato la volata ai suoi due candidati, quasi sostituendosi a loro. Nell’ultimo comizio sul Bosforo, con linguaggio imperial-Ottomano, era arrivato a dire “Spero che Istanbul trovi i suoi proprietari questo aprile. Questa è la città cui ho dedicato la vita, cui dedicherò l’ultimo respiro”. Il perché di tanto impegno va ben oltre le sue origini e l’esserne stato sindaco. Istanbul è il motore principale della Turchia. La capitale economica, finanziaria, turistica, culturale. Genera la metà del gettito fiscale. Amministrarla significa vedersi passare per le mani un buon 30 per cento del Pil nazionale. Esserne “proprietari” ha un suo alto tornaconto. Si è trovato, il Sultano, a dover fare tutto da sé, e qui sta una terza ragione della sconfitta, perché nel suo egocentrismo si è circondato di personaggi modesti, sempre ligi ai suoi voleri, mai quel tanto autorevoli da fargli il più piccolo cono d’ombra. I più autorevoli membri dell’Akp, come l’ex-premier Ahmet Davutoğlu, l’ex-ministro delle finanze Alì Babaçan, ma soprattutto l’ex-presidente della Repubblica Abdullah Gül, lo hanno lasciato da tempo.
Gli elettori dell’Akp hanno così votato lui, non tanto i suoi candidati, ma non è stato sufficiente. I due sindaci repubblicani Mansur Yavaş ad Ankara e Ekrem Imamoğlu a Istanbul avevano lavorato bene, guadagnandosi l’apprezzamento delle due cittadinanze, e con esso la riconferma. Cosa particolarmente importante in vista delle prossime elezioni presidenziali del 2028, sia l’uno sia l’altro aspirano alla candidatura, e un decennio da sindaci è un buon viatico, come lo fu, a suo tempo, per Erdoğan. Una quarta ragione discende dalla situazione economica e dall’alto tasso d’inflazione o, meglio, di iperinflazione. Viaggia ancora al 70 percento su base annua. Da tempo va ripetendo come nel semestre a venire sarà riportata sotto controllo. Lo ha fatto anche in questi giorni. Ma la realtà è quella di una persistente ascesa dei prezzi. Oramai ha perduto credibilità.
La sconfitta di Erdoğan non è solo nelle grandi città, ma anche nel sud-est del Paese dove il partito pro-curdo Dem ha vinto in una decina di città. Non avendo alcuna volata da tirare ha giocato spregiudicatamente. Col pretesto della sicurezza ha fatto affluire nell’area polizia e militari. Questi, in base alla legge turca, hanno diritto di voto laddove sono in missione. In quasi cinquantamila hanno votato nel tentativo di alterare gli equilibri politici locali, ma l’escamotage non ha funzionato. La volontà della popolazione residente, quinta ragione dell’insuccesso elettorale, ha prevalso.
Nel suo discorso la notte della sconfitta il Presidente ha affermato come la vera vincitrice sia la democrazia, quando nelle tante elezioni da lui vinte aveva sempre indicato in sé stesso e nel proprio partito il vincitore. Ha poi riaffermato la sua determinazione a continuare nel programma predisposto. Non ascoltare la voce della democrazia potrebbe costare a lui e al suo partito un conto molto salato nell’anno centocinque dalla fondazione della Repubblica.
(Versione ampliata dell’articolo pubblicato sul Giornale di Brescia il 2 aprile 2024)
(Foto di Reda Zahrawi su Unsplash)