Che cosa ci preoccupa o forse addirittura ci spaventa degli ultimi risultati delle prove Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione)?
Il cuore della notizia apparsa a metà luglio su tutti i giornali cartacei e online e lanciata da tele e radiogiornali è sintetizzabile più o meno così: molti, troppi studenti con bassi livelli di competenze e conoscenze in italiano e matematica.
C’è chi ha scelto la strada dell’allarme, chi ha melanconicamente ammesso che non è altro che la realtà, chi ha dissotterrato l’ascia di guerra contro l’Invalsi e il suo modo di verificare le abilità degli studenti, chi ha accusato i ragazzi di aver perso le proprie capacità per colpa dell’uso smodato dei social network, chi ha nascosto la testa nella sabbia sminuendone la portata e chi si è messo semplicemente ad analizzarli, senza fare di tutta l’erba un fascio, alla luce dell’angolatura da cui conosce il mondo dei bambini e dei ragazzi.
Cosa dicono i dati?
Partiamo dai numeri: sono stati circa 2.700.000 gli studenti coinvolti in oltre 12.000 scuole.
I risultati sono effettivamente peggiori dell’anno precedente, ma anche rispetto al periodo pre-pandemia che, volente o nolente, continua ad allungare in parte la sua ombra sulla nostra scuola.
Per la prima volta assistiamo alla discesa delle performance della scuola primaria in tutte e tre le discipline indagate: italiano, matematica e inglese. I risultati della scuola secondaria, sia di primo che di secondo grado, permangono bassi, e più di quelli della primaria, ma almeno non peggiorano e si stabilizzano.
Ma è soprattutto il divario territoriale tra nord e sud del paese che risulta evidente e consistente. Lo stesso presidente dell’Invalsi Roberto Ricci lo ha sottolineato: «Si assiste a un progressivo distanziamento negativo del Mezzogiorno. Tali divari non riguardano soltanto gli apprendimenti in senso stretto, ma anche le opportunità di apprendere. Esse si fanno sempre più disomogenee nel Mezzogiorno, con evidente danno per le fasce più deboli della popolazione».
La valutazione degli apprendimenti e delle competenze è un processo complesso, ma indispensabile e importante. I risultati delle prove Invalsi non sono né il punto di non ritorno né un monolite intoccabile, ma un’occasione annuale che deve spingere prima di tutto il mondo della scuola a ragionare e a progettare.
Leggere i dati all’interno del proprio contesto, conoscendo il lavoro quotidiano fatto dai docenti nelle classi è il primo passo che ogni scuola dovrebbe fare seriamente nella fase di avvio dell’anno scolastico. Assumere la responsabilità dei risultati dei propri studenti, e non solo cercare motivazioni esterne per giustificarli, può essere un giusto inizio. La posta in gioco non è la qualità di maestri e professori (è fondamentale sgombrare il campo dal sentirsi giudicati e in competizione), ma l’istruzione degli allievi.
E ora che fare?
La fotografia Invalsi della realtà ci racconta un processo che ha la profondità di anni di attività didattica e non il cattivo apprendimento di conoscenze di qualche settimana di scuola. Il vero problema non è solo a che punto siamo arrivati, ma come muoverci da adesso in avanti per non restare fermi e correre il rischio di scivolare ancora all’indietro.
Se riusciamo a ricordarci che le prove Invalsi sono un mezzo e non un fine, potremo scoprire come progettare meglio i nostri percorsi didattici, perché preparare alle prove Invalsi non dovrebbe essere semplicemente addestrare i bambini e i ragazzi a un compito, ma il mettere alla prova la somma di tutto quello che si è fatto in anni di scuola e non solo dagli insegnanti di italiano e matematica.
La comprensione di un testo rimane il cuore di ogni difficoltà che emerge dai dati Invalsi. Insegnare ad approcciarsi a leggere, decodificare, comprendere, interrogare, smontare e rielaborare un testo (e dietro questo termine si nasconde una molteplicità enorme di prodotti: la consegna di un esercizio, un racconto, una poesia, il paragrafo di un libro di testo di qualsiasi disciplina, un romanzo, un modulo, un’etichetta, un articolo…) deve essere, in ogni fase scolastica, al centro dell’azione didattica. Offrire agli studenti gli strumenti necessari per capire deve essere maggiormente una parte fondamentale della nostra istruzione ed educazione.
Se manteniamo come orizzonte l’obiettivo 4 dell’Agenda 2030 che ci richiede di garantire un’istruzione di qualità, inclusiva ed equa che offra opportunità di apprendimento continuo per tutti, è indubbio che la situazione attuale ci imponga di cercare cambiamenti e miglioramenti. Non esiste una ricetta unica e sicura da seguire, ma tante strade da percorrere e che devono rimettere al centro il rapporto dei bambini e dei ragazzi con l’apprendimento e farne crescere l’interesse, perché studiare è comprendere maggiormente il mondo, ma anche sé stessi. Lavorare in classe non vuol dire solo trasmettere delle conoscenze, ma soprattutto confrontarsi, incoraggiare, correggere, ascoltare, offrire obiettivi possibili da raggiungere, stimolare, ma anche valutare per sapere quanto manca al traguardo.
Forse cambiare prospettiva e considerare i risultati delle prove Invalsi come una sfida più che come un allarme potrebbe aiutare tutti a rimettere al centro il rapporto scuola-studenti. Dobbiamo essere concreti nell’affrontare le debolezze del nostro sistema scolastico e ogni scuola deve essere consapevole di quali sono le sue. Nessuno docente può bastare a sé stesso: o si progetta tutti insieme il cammino (affrontando lo sforzo titanico del confrontare le idee per trovarne una sintesi possibile e attuabile) o anche nei futuri mesi di luglio ci troveremo ad analizzare dati sconfortanti e a cercare il capro espiatorio della inesorabile discesa della scuola italiana.
(Foto di Antoine Dautry su Unsplash)