Pubblichiamo l’intervento svolto al Quirinale il 9 maggio scorso, in occasione del Giorno della
memoria delle vittime del terrorismo.

Il ricordo delle vittime della violenza è doveroso, ma sembra anche utile che si estenda a cogliere l’occasione per richiamare alla memoria collettiva il loro contributo di esseri umani viventi alla storia del paese. Questo vale anche per una figura come quella di Aldo Moro, la cui immagine per tanti aspetti è ancora spesso schiacciata nel ricordo del suo sacrificio, compiutosi proprio quarantacinque anni fa. Le controversie numerose (e spesso fondate) sugli eventi dei cinquantacinque giorni, la sensazione penosa e struggente di non aver raggiunto una verità dicibile e condivisibile su quella tragedia, non ci esimono dal provare ad allargare il senso del suo ricordo. L’assassinio di Moro è stato in qualche modo uno spartiacque storico. Simboleggia la fine violenta di un progetto elaborato e articolato di stabilizzazione democratica, forse l’ultimo della prima stagione repubblicana.

Si può leggere quel progetto in modo appropriato collocandolo sullo sfondo della profonda crisi del decennio Settanta: un vero momento decisivo di transizione tra due mondi, tra due assetti complessivi del sistema internazionale e del nostro paese in esso. Si stava esaurendo la parabola di grande espansione economica del dopoguerra, centrata sul modello economico fordista integrato negli Stati nazionali ormai maturati in forme di democrazie di massa. La divaricazione sociale, il mutamento culturale, la polarizzazione politica accompagnarono in modo creativo ma anche scomposto la fine della crescita, il ripensamento sui modelli di sviluppo e la stagione della stagnazione inflazionistica, mentre emergevano nuovi soggetti nel mondo e l’egemonia occidentale si indeboliva.

La leadership politica di Moro aveva avuto molto a che fare con il consolidamento riformatore della lunga stagione postbellica. Da segretario della Dc era riuscito a portare il suo partito compatto all’alleanza con i socialisti e poi aveva guidato per cinque anni i governi di centro-sinistra. Aveva perseguito con determinazione la sua intuizione originaria – da giovane padre della costituzione – di dover affidare alla politica democratica il compito programmatico di realizzare progressivamente il disegno di Stato democratico e sociale che sta iscritto nella prima parte della Carta del 1948. Era il contenuto dossettiano della politica morotea. Bilanciato peraltro dal suo metodo degasperiano. Cioè dalla consapevolezza di dover perseguire quella meta tramite un’accorta mediazione, capace di trainare la gran parte del moderatismo italiano, come il leader trentino era riuscito a fare al momento della rottura dell’alleanza antifascista nel 1947, disinnescando alternative conservatrici.

Questo bilanciamento di finalità riformiste e di modalità mediatorie era tanto forte in Moro da sembrare la sua veste abituale, il suo carattere personale o secondo altri punti di vista la sua deformazione soggettiva. C’è chi l’ha tacciato per questo di staticità, di sottile conservatorismo o di atavico senso di passività, condizionato dall’impressione dell’ineluttabilità degli eventi. Interpretazioni che trascurano il nesso tra quelle due dimensioni.

Già la parabola riformatrice del centro-sinistra si era scontrata con le resistenze di quello che si può definire un articolato «partito dell’immobilismo». L’accelerazione della storia propria del decennio ’70 rese ancor più arduo per il leader pugliese tenere assieme i termini essenziali della sua intuizione politica: una società capace di «farsi Stato» perseguendo «un ideale di giustizia» (come aveva scritto fin dalle dispense giovanili di filosofia del diritto), uno Stato che rappresentasse e guidasse la società ascoltandola senza scorciatoie e semplificazioni, e a cucire i due ambiti un partito capace di esprimere sintesi culturali. Diveniva incomparabilmente più faticoso, rispetto alla società tradizionale del dopoguerra, unificare i mille rivoli di una spontaneità che si manifestava critica della tradizione, ma anche della stabilità e delle riforme. La società da verticale – osservava egli nel 1974 – diventava «orizzontale, con potere diffuso e disperso». Moro aveva letto in modo disponibile e non polemico il ’68: un fenomeno verso cui nulla sembrava doverlo portare spontaneamente a simpatizzare, proprio lui che aveva perseguito per anni da posizioni di vertice una modernizzazione pacifica e ordinata del paese. Coglieva però nell’ascolto dei giovani un effetto di cambiamenti profondi di mentalità e di nuove soggettività, che occorreva affrontare non reprimendole, ma metabolizzandole democraticamente. Per impedire che si creassero corti circuiti assolutamente devastanti tra derive sovversivistiche e contraccolpi reazionari. Era il nesso pericoloso che lui intravedeva nell’affacciarsi della violenza, con gli oscuri attentati terroristici di quegli anni.

La politica democratica cominciava intanto a mostrare la corda: la «Repubblica dei partiti» si smarriva di fronte alla nuova società più esigente. Proprio per questo, Moro stesso fu emarginato per anni dagli equilibri di vertice del suo partito. Scelse consapevolmente per reagire allo scacco una posizione più defilata al ministero degli Esteri. Diede anche prova di combattività e di capacità di assumere ruoli di opposizione. Quando riprese in mano l’iniziativa politica nel 1973 per ricostituire il centro-sinistra e poi dialogare con la crescita sociale ed elettorale del Pci, visse però una stagione molto più difficile, drammatica e angosciosa, rispetto al decennio ‘60.

L’orizzonte della sua ricerca non era solo politico-parlamentare. Moro propose uno sforzo di «solidarietà nazionale», che era ben più di una formula politica, ma collegava la ripresa di un confronto tra le forze politiche, fuori da una pericolosa polarizzazione, alla possibilità per il paese di assestare le proprie tensioni per non essere emarginato dalle trasformazioni internazionali che stavano profilandosi. Non intendeva accettare la proposta di Berlinguer del compromesso storico, cioè di costituire un governo assieme al Pci, quasi fosse possibile riprendere un percorso interrotto dalla rottura del patto antifascista del 1947. Volle però avviare un dialogo che avrebbe potuto portare il partito rivale a rivedere profondamente le sue basi ideologiche, filtrando al tempo stesso sul piano parlamentare le pulsioni e le istanze che venivano dal disordinato ma vitale movimento della società. Tale scambio chiarificatore ed evolutivo avrebbe avuto nella sua visione tappe non tutte prefigurabili: «il futuro è solo parzialmente nelle nostre mani», ebbe occasione di dire. Sullo sfondo, stava anche la possibilità di reinterpretare la distensione internazionale come orizzonte di movimento, non solo di ingessatura conservatrice dei due blocchi (nella versione bipolare). Non era una via facile, e Moro ne era del tutto consapevole.

Questa ardua e complessa operazione fu in sostanza drasticamente interrotta nel 1978. Una qualche stabilizzazione del paese sarebbe stata comunque raggiunta, ma su basi ben diverse da quelle intuite e proposte dal Moro del decennio ’70. E non sarebbe durata che poco più di un decennio, avvitandosi nella crisi definitiva del sistema politico.

A 45 anni dalla sua morte, i contenuti del suo discorso politico appaiono in gran parte lontani e distanti. Resta però l’inattualità attualissima di un richiamo ad interpretare la complessità della società, a tentar di mutarla con la forza della parola disarmata e logica capace di creare novità, a usare il dialogo e la forza di convinzione ragionevole come strada maestra e decisiva per risolvere i problemi delicati della convivenza collettiva tra gli esseri umani. Resta in sostanza una lezione di democrazia, la cui conoscenza ancora ci può giovare.

Nella foto (www.quirinale.it): il presidente Mattarella con Guido Formigoni e Benedetta Tobagi.

 

 

  • Guido Formigoni

    Professore di Storia contemporanea e Prorettore vicario, Università IULM - Milano. Coordinatore della rivista web Appunti di cultura e politica.