Proponiamo ai nostri lettori il testo della bella orazione civile pronunciata il 23 aprile a Fiorenzuola d’Arda dalla filosofa Carla Danani che ringraziamo.

Ci sono date che hanno un valore simbolico, per cui la ritualità di ritrovarsi in un certo giorno non è mero ricordo del passato ma è l’invito a cogliere nel già dell’evento concreto il rinvio a qualcosa da custodire che, insieme, sta dentro a quell’evento e anche va oltre di esso: un oltre di cui, attraverso quell’evento concreto, si può cogliere il senso, ma che pur anche lo supera e lo ricomprende.
E se è vero che nessuna referenza ordinaria satura ciò a cui simbolicamente rinvia, eppure essa non è nulla: è questa che ci fa intendere quell’oltre, che ci consegna le parole per dirlo; in essa quindi, e non a prescindere da essa, si annuncia qualcosa di più grande, cui essa accenna ma non esaurisce.
Il 25 aprile è, per l’Italia, una di queste date simboliche: nel richiamare alla liberazione di Milano dalle forze nazifasciste, essa rinvia a tutto ciò per cui, in positivo, la Resistenza è esistita.

Questo qualcosa ha preso direttamente forma nella Costituzione, che quindi nella Resistenza e nell’antifascismo trova il proprio atto fondatore.
Questo prender forma ha creato quello spazio della libera contrapposizione delle idee, delle prospettive, degli scenari, che prima non c’era. Non ci si dovrebbe mai dimenticare che la condizione di possibilità dell’apertura di questo spazio è la Costituzione e che, quindi, è un paradosso pericoloso praticarlo, questo spazio, per minare ciò che lo rende possibile.
L’antifascismo, come evento fondatore della Costituzione, è evento fondatore di ciò che ci rende un certo tipo di comunità.
Essa ne indica i tratti: in negativo, nella dodicesima disposizione transitoria e finale, che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” e, quindi, dice che cosa non vogliamo più essere, in positivo, nei suoi articoli che traducono in direttrici politiche quell’orizzonte di lotta resistente che è stato l’evento fondatore.

Ecco allora che delinea (e mi riferisco a una bella sintesi di Sergio Labate) il modello di una società fatta di persone laboriose (artt. 1 e 4), libere (art. 2) , eguali, effettivamente eguali (art. 3), partecipi del governo della cosa pubblica, di un governo che prenda dunque forma non già a mezzo delle pratiche cui è avvezzo un regime autoritario, bensì di quelle proprie di una democrazia matura (art. 1), pratiche perciò ispirate al principio della massima distribuzione, orizzontale e verticale, della sovranità, nonché al principio dell’apertura alla Comunità internazionale ed alle organizzazioni che si pongono al servizio della giustizia e della pace tra le Nazioni (artt. 10 e 11). Ecco che la Carta sollecita a mettere a frutto le formidabili risorse derivanti dal pluralismo sociale, in ciascuna delle sue articolazioni ed espressioni e in tutte insieme, ed assicura riconoscimento e tutela alle minoranze di ogni colore, siano esse religiose come pure politiche, linguistiche e culturali in genere. E ancora: un posto centrale spetta nel disegno costituzionale al valore della solidarietà, sollecitato ad affermarsi ed a farsi valere in modo apprezzabile a beneficio dei più deboli ed esposti, traducendosi alla bisogna in accoglienza e genuina, gratuita fratellanza, anche dunque nei riguardi di coloro che tentano di sfuggire a guerre, persecuzioni, torture, avventurandosi per mare o per terra alla ricerca di un luogo in cui possano avere condizioni di vita “libera e dignitosa”.

Questo è il modello di comunità italiana disegnato dalla Legge fondamentale della Repubblica.
Alcuni diranno che è un ideale. Ma un ideale non è semplicemente niente: dice chi vorremmo essere, anche quando non ci riusciamo, è capace di ispirare, apre scenari, suggerisce mondi possibili.
È origine e compito: prefigura dei modi di essere che, per esistere davvero, sono al presente sempre da concretizzare di nuovo, ma sono anche, insieme, il futuro a cui ci impegniamo: origine e compito, appunto.
I valori fondamentali, peraltro, hanno sempre, in fondo, un carattere tendenziale, e si presentano come insaziabili: perché sono fatti così, più sono realizzati e più ancora richiedono di esserlo.
Questa data allora, che ci rinvia alla Resistenza antifascista quale evento fondatore della Costituzione, in cui si esprime l’ideale della comunità che vorremmo essere, mi suggerisce 3 temi. che mi sembrano particolarmente urgenti:

  • quello della memoria, ovvero del passato,
  • quello che possiamo chiamare “la questione della verità”,
  • il tema della libertà.

Il rapporto con il passato è qualcosa di complesso e difficile (come ci ha ben insegnato Paul Ricoeur).
È il rapporto con qualcosa che non è più, quindi nell’ordine del non essere, perché il passato è andato, e però è anche il rapporto con qualcosa che è stato, e quel che è stato anche in qualche modo continua ad esistere, nella sua eredità; di fronte alla quale, allora, si è responsabili di decidere come giocarne il senso nel presente e nell’apertura al futuro.
È questa la responsabilità del fare memoria: esercitare il discernimento, la comprensione, di fronte al passato che non è più ma che non si può far in modo che non sia stato; farlo essere generativo di vita, di liberazione, di emancipazione oppure lasciare che sia continuazione di deprivazione, di sofferenza, di dominio.
Nel cuore della responsabilità del fare memoria c’è, però, un dovere di verità,
Non si tratta di una questione solo di conoscenza, ma di un modo di pensare, di vivere, di relazionarsi gli uni con gli altri: la questione di verità ha grande portata politica.

Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo osservava che il suddito ideale del regime totalitario è l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso non esiste più. E in Verità e politica rilevava che “il risultato di una coerente e totale sostituzione di menzogne alla verità non è che le menzogne saranno ora accettate come verità e che la verità sarà denigrata facendone una menzogna, ma che il senso grazie al quale ci orientiamo nel mondo reale – e la categoria di verità come contrapposta alla falsità è tra i mezzi mentali a tal fine – viene distrutto. E a questo danno che è la distruzione della categoria di verità, diceva, non c’è alcun rimedio”. L’annullamento della linea di demarcazione tra verità e falsità significa, per la vita politica, la perdita del senso del limite, mentre la politica, invece, dovrebbe riconoscersi «limitata da quelle cose che gli uomini non possono cambiare a loro piacimento. Ed è solo rispettando i suoi confini che questo ambito, la politica appunto, dove siamo liberi di agire e trasformare, può rimanere intatto, preservando la sua integrità e mantenendo le sue promesse».
L’appello alla verità custodisce insomma un risvolto emancipatorio, potremmo dire una portata etica.
Non è ospite gradito in contesti totalitari, ma è requisito costitutivo delle forme di vita democratiche. A differenza dei totalitarismi, infatti, le democrazie, che accolgono e regolano in modo pacifico il conflitto, sono ospitali verso la molteplicità dei punti di vista e le libere discussioni, accettano e danno forma alla divergenza, nella tensione alla possibile condivisione: esigono quindi, per funzionare al meglio, libertà di pensiero e di ricerca, e queste sono pratiche “amiche” della verità e nemiche delle mistificazioni.

George Orwell, nel disegno della sua distopia, 1984, ha messo ben in luce come invece la pretesa totalitaria includa la distorsione della verità. Egli riprende la formula matematica 2+2= 4 per farla diventare l’emblema del contrasto tra verità e totalitarismo nella reiterazione della richiesta, da parte di O’Brien, gerarca del partito, uno dei leader più in vista, che l’impiegato Winston dichiari, invece, che 2+2=5. O’Brien peraltro non si accontenta che Winston dica che le cose stanno così come lui pretende che asserisca, esige che lo creda.
L’umiliazione che O’Brien infligge a Winston non sta soltanto nel costringerlo a dire qualcosa di diverso da ciò che crede vero, e neppure nel volerlo portare a credere qualcosa di diverso dalle sue convinzioni consolidate, ma sta nel convincerlo a ritenere vero qualcosa che sa essere falso. La situazione non riguarda semplicemente la sostituzione di alcune credenze con altre, ma la distruzione della consapevolezza di esser in grado di farsi non semplicemente, in generale, delle credenze, ma delle credenze vere, che colgono “il modo in cui le cose stanno”: appunto è la distruzione del senso di realtà.
Dice Winston: “Come posso fare a meno di vedere quel che ho dinanzi agli occhi? Due e due fanno quattro”.
“Qualche volta, Winston – risponde O’Brian. Qualche volta fanno tre. Qualche volta fanno quattro e cinque e tre nello stesso tempo. Devi sforzarti di più. Quante dita sto mostrando, Winston?”
“Non lo so. Non lo so. Mi farai morire se ripeterai l’esperimento. Quattro, Cinque, sei…non so, in buona fede, non lo so proprio”.
“Va meglio cosi” disse O’Brien.
Infine Winston non confida più nella possibilità di “cogliere come stanno le cose”, crede che tutto sia indifferente, anche se vede la differenza.
Il potere totalitario fiacca così la coscienza e la rende disponibile ad accettare qualsiasi mistificazione.
Se ci si convince, magari a causa del sostegno istituzionale a qualche forma di revisionismo storico, che non esiste un “modo in cui le cose stanno”, o che, se anche esiste, è irrilevante, allora è inutile impegnarsi nell’impresa: non si può che diventare indifferenti, disinteressati a cercare, comunicare, discutere cosa sia vero davvero; restano i gusti individuali ma di quelli, come si sa, non si discute. Si diventa così in balia degli interessi che più si impongono, magari con la tentazione di farsene complici, per utilità.
La mistificazione trova così terreno fertile nel relativismo indifferente e passivo; mentre poi questo, a propria volta, funziona come un solvente: ci separa gli uni dagli altri, orfani della condivisione di una realtà in comune da spartire.

Relativismo e individualismo, così, finiscono per sostenersi a vicenda.
Nel sostenersi corrodono l’idea di libertà, facendole credere di potersi esaurire nella sola autodeterminazione, ovvero nel poter fare e poter dire quello che “se ne ha voglia”.
Ma la libertà non si riduce a questo, che ne è piuttosto un tradimento. La libertà è impegnativa e non disimpegno.
È certo il poter decidere senza imposizioni esterne, ma questo non basta. Libertà è poter scegliere ciò che si ritiene possa realizzare una vita buona; la sola autodeterminazione non basta, perché all’essere umano non è indifferente scegliere questo o quello.
E, però, capaci di realizzare la propria vita si diventa: grazie alla rete di buone relazioni che altri ci consentono di vivere. La mia libertà non finisce ma inizia dove comincia quella dell’altro.
La libertà è quindi autodeterminazione, autorealizzazione ma anche relazione: si tratta di aver cura, l’un l’altro, della fioritura di ciascuno e di tutti: il più sincero riconoscimento della singolarità di ciascuno va di pari passo con la cura del legame di cui si vive. Legame tra gli esseri umani ma anche con la terra e la natura, condizioni di possibilità dell’esistenza.
Riconoscere e praticare questo legame, storico e spirituale, richiede che non esitiamo a mettere in circolo responsabilità e gratitudine.
Responsabilità per il mondo che costruiamo e gratitudine per ciò di cui viviamo e per l’eredità che abbiamo ricevuto.

Questa eredità non è nulla di astratto, ma ha volti e nomi. Alcuni di essi ci vengono incontro dalle targhe che indicano le vie della nostra città: Alberto Conni, i fratelli Molinari, Rino Cavaliere, Gavazzi, Crenna, Sesenna, Boiardi, e poi tutti gli altri, Sandokan (il partigiano Angelo Gatti già presidente dell’ANPI di Fiorenzuola), Pastorelli (a cui la sede ANPI è oggi dedicata), i partigiani che ancora sono in questo mondo e quelli che non sono più tra noi, tutta la popolazione che li ha aiutati e sostenuti.
Rivolgiamoci con gratitudine a quella assunzione di responsabilità che significò non voltarsi da un’altra parte, non restare indifferenti, guardare in faccia come stavano le cose e avere il coraggio di dirsi e dire un’altra verità da quella raccontata e imposta: su quel modo di vivere davvero non si poteva costruire una convivenza civile di liberi ed eguali, senza violenza.
Avendo visto, cercarono insieme di interromperne la ripetizione.
Vi arrivarono, a vedere, a comprendere, a dire di no, nelle diverse biografie, per strade anche molto eterogenee: alcuni attraverso la cultura politica e una consolidata militanza antifascista, ma non furono immediatamente prevalenti, altri attraverso la fuga dalla leva della Repubblica di Salò, altri ancora per repulsione nei confronti degli effetti del regime, per altri fu invece la fedeltà al giuramento militare, per alcuni l’incompatibilità con l’invasore tedesco, o anche il superamento della soglia di sopportazione di una guerra che produceva catastrofi, morti e miseria.
Vite diverse conobbero modi diversi ma convergenti di contestare il falso racconto del regime fascista: studenti e lavoratori, operai e contadini, militari e intellettuali, giovani e popolazione civile, gente di pianura e di montagna, donne e uomini dissero di no: un no positivo, che resisteva e si opponeva perché potesse iniziare un mondo diverso, più umano.
Era un “no” creativo che apriva, faceva spazio al possibile, un “no” costruttivo: perché ciascuna e ciascuno potesse vivere una vita più umana.
Quel no che fu la Resistenza fu ricco di timbri differenti: provenne da culture diverse, anche distanti, da quella comunista a quella cattolica, passando per i liberali, i socialisti, gli azionisti.
Si abilitarono reciprocamente a stabilire le fondamenta di un legame nuovo, costruendo così, attraverso l’esercizio di un’esperienza ampiamente e decisamente democratica, certo non facile, la base della Carta Costituzionale.

Quell’evento fondatore da cui abbiamo preso le mosse non è nulla di astratto, quindi, o velleitario, ma tessitura storica di molte biografie coraggiose e generose. Grazie, per ricordarcelo, all’iniziativa – sostenuta dall’ANPI – dell’Istituto Comprensivo della nostra città: desidero proprio, infine, invitare tutti a venire sabato 29 aprile alla presentazione del progetto realizzato dai ragazzi e dalle ragazze delle classi terze: racconteranno, in un percorso a tappe, le figure di Aldo Braibanti, Alberto Crenna, Renato Donelli, Leonardo Maccagni, Giuseppina Orsi, Giuseppe Pastorelli, Anselmo Tanzi – alle ore 9.30, ritrovo in piazza Caduti, accompagnati dalla Banda Scolastica da loro stessi formata – perché quell’evento fondatore, appunto, è eredità concreta di uomini e donne che consegnano ancora a noi, in questo tempo difficile e sofferente, un compito di libertà, eguaglianza, solidarietà, giustizia e pace

Viva la Resistenza!

 

  • Carla Danani

    Professoressa ordinaria di Filosofia morale presso l'Università degli studi di Macerata, dirige il Centro Interuniversitario di Studi Utopici.