Economy of Francesco è il processo attivato su iniziativa di papa Francesco nel 2019, attraverso una “chiamata” ai giovani economisti, imprenditori e “attori del cambiamento” di tutto il mondo, per incontrarsi, confrontarsi, e gettare le basi di una nuova economia: un’ “economia che cura”, ispirata a Francesco d’Assisi, al posto di un’ “economia che uccide”, perché sottomessa al paradigma tecnocratico e al profitto individuale, come Francesco dice fin dall’inizio del suo pontificato.
La giovane storia di questo processo è già in sé stessa indicativa di molte cose: Economy of Francesco (EoF) sembrava inizialmente pensato semplicemente come un evento. Organizzato ad Assisi a fine marzo del 2020, si preparava ad accogliere in 12 “villaggi” tematici circa 3000 giovani da tutto il mondo. Da lì poi forse sarebbero scaturite cose, sarebbero iniziati lavori, si sarebbero consolidate relazioni e scambiati punti di vista sulla realtà economica e come affrontarla per costruire un cambiamento.
Grazie alla Cooperativa Intrecci di cui sono socio e per cui lavoro, occupandomi di educazione finanziaria, sono stato scelto per partecipare all’evento e così ci siamo preparati per andare ad Assisi, carichi di aspettative.
Ovviamente l’evento del 2020 è stato annullato, la pandemia appena emersa ha reso impossibile trovarsi in presenza ad Assisi, e questo ha costretto ad un cambiamento di rotta immediato.
I villaggi hanno cominciato a lavorare a distanza, connessi (faticosamente) da ogni angolo del pianeta, cercando di conoscersi pur non essendo tutti lì e tutti insieme, avendo perso inevitabilmente qualche “pezzo”, di chi ha fatto più fatica a reggere l’impegno in queste modalità, e con la sensazione di avere un mandato abbastanza vago: sì, da un lato all’evento online che si sarebbe poi tenuto a novembre sarebbero stati restituiti al Papa e a tutti, i lavori dei villaggi, sotto forma di proposte operative per una economia di Francesco, ma intanto si cercava anche di tenere insieme i gruppetti e le differenze di aspettative e di background di ognuno, cercando non farci disconnettere troppo. Qualche villaggio ha anche partorito delle idee che si sono concretizzate, come la “Farm of Francesco” del villaggio Agricolture and Justice, che serve a promuovere esperienze di agricoltura sostenibili in tutto il mondo, o l’iniziativa “A Vaccine for All!” per forzare la distribuzione iniqua dei vaccini soprattutto nei primi mesi e portare il vaccino del covid a popolazioni che non vi avevano ancora accesso (in primis quelle lungo il corso del Rio delle Amazzoni).
A novembre 2020 c’è stato l’interessante evento online, con molti relatori soprattutto tra gli “Ambassador”, ossia gli economisti esperti che si sono offerti di accompagnare il percorso dando come contributo le loro idee per una nuova economia, da Muhammad Yunus a Vandana Shiva e Leonardo Boff, e la “maratona” delle connessioni che testimoniavano la partecipazione da tutto il mondo. La conclusione e il fatto più rilevante dell’evento fu indubbiamente la “risposta” del Papa ai lavori dei villaggi: “continuate”. EoF non è più un evento isolato, ora è partito come un processo, anzi, l’ “impegno generazionale” della nostra generazione, una sfida da portare avanti per tutta la vita, anche perché il cambiamento che vogliamo essere e produrre è davvero ampio, e i tempi non possono essere ridotti.
Quindi il lavoro è proseguito, questa volta aggiungendo un ingrediente: gli hub territoriali, sorte di cellule di EoF in tutti i paesi del mondo. Anche il lavoro negli hub è stato comunque a distanza per molto tempo, è ancora di più, rispetto ai villaggi, questa struttura evidenziava la vaghezza delle prospettive operative. Che cosa dobbiamo fare come hub? Qualcosa di concreto sul territorio? Ma in Lombardia ad esempio cosa ha
senso fare che non siamo propriamente nella terra di nessuno e le iniziative coerenti con EoF sono già molte? Forse ha senso fare formazione sui nostri temi e promozione di Eof… ma siamo pronti a farlo? Non manca una base teorica più chiara e omogenea che contraddistingua EoF al di là di essersi letti la Laudato si’ e la Fratelli tutti?

Ed ecco che la base teorica arriva (o quasi). Nasce la EoF School, una scuola di formazione avanzata con gli Ambassador e tanti altri professori, che in numerose lezioni online nel corso del 2021 punta a dare le basi teoriche a tutti i partecipanti. I contenuti sono estremamente interessanti, e per un periodo sembra che EoF sia soprattutto terreno dei ricercatori. Inoltre parlerei di “quasi” base teorica, perché nonostante diversi concetti e intuizioni potenti, non sembra interamente organica e programmatica, ma più sperimentale e “aperta”, e questo continuerà a vedersi anche dopo.
Nel frattempo, a ottobre 2021 c’è il secondo evento internazionale, ancora una volta online, ma almeno parzialmente in presenza, raggruppati per paesi, per chi vuole. In Italia ci si trova proprio ad Assisi, e tra le altre cose, con il calore di un confronto dal vivo, si inizia a discutere anche della necessità sentita e proposta (senza successo) da alcuni, di una struttura organizzativa, un problema che a mio parere resta anche oggi ed è cruciale.

La struttura organizzativa

La questione è: che cos’è EoF? E quindi “di chi è” EoF? Ancora quest’anno all’evento finalmente davvero internazionale e finalmente davvero insieme a papa Francesco, EoF è ed è stata una cosa aperta. Giovani interessati al processo ma avvicinatisi per vari motivi solo da poco, non hanno difficoltà ad entrare e sentirsi parte, anche proprio perché una struttura organizzativa formale non c’è, a parte il Comitato Organizzativo, (che per altro non è dei giovani).
Si intuiscono facilmente gli aspetti positivi di questo approccio: evitare il rischio di una strutturazione gerarchica (proprio quando abbiamo studiato la Plant Economy di Stefano Mancuso che dice dobbiamo riorganizzare la società e l’economica sul modello orizzontale delle piante); mantenere vitale e libero il processo, capace nel tempo di andare nelle direzioni più attuali e di non irrigidirsi in posizioni inadeguate; flirtare con la possibilità di essere un grande cappello inclusivo che tenga dentro e insieme le diverse appartenenze degli umani (quelle interessate al cambiamento di paradigma nella direzione dell’economia integrale) anziché diventare “una cosa tra tante”.
D’altra parte, però gli svantaggi sono altrettanto evidenti, e li riassumerei in due questioni: la democrazia interna e l’azione politica.
– Democrazia interna: chi prende le decisioni? E con quale autorità? Come si fa a decidere quando
emergono questioni divisive quale approccio sceglie EoF? Un esempio evidente di quali possono essere le divisioni si è visto nel “clima” umano ancor prima che nelle tematiche discusse ai tavoli di lavoro all’evento internazionale di quest’anno. Da più parti si respirava l’impeto di cambiamento quasi rivoluzionario portato in particolare dai movimenti popolari, dai Sém Terra brasiliani, portatori di istanze più radicali e alternative al sistema capitalista, da altre parti (del mondo…?) si percepiva quasi imbarazzo per questi percorsi e si delineavano, abbastanza vagamente per la verità, approcci più “riformisti”. Benissimo, la diversità degli approcci arricchisce, ma a un certo punto un’organizzazione deve dire cosa pensa nel suo complesso, e come si fa se non c’è una struttura di rappresentanza?
– Azione politica: senza “scelte” strategiche l’effetto è che EoF sembra muoversi poco, nel suo complesso, deficitare di una strategia credibile per mettere insieme le tante iniziative locali pratiche molto belle messe in atto in un quadro generale di azione globale che sia capace di fare pressione politica per delle scelte cruciali che non possono essere fatte che a livello “alto”. Anche qui, non è che questa dimensione sia del tutto assente, alcuni villaggi hanno confezionato proposte che sono state portate avanti al punto di essere discusse con commissari europei (sempre Agricolture and Justice ad esempio ha dialogato con il commissario Timmermans e gli ha dato delle richieste ufficiali di modifica della PAC), ma nel complesso la sensazione di non avere una strategia di azione chiara è diffusa. Alcuni giovani chiacchierando in uscita da Assisi 2022 dicevano “tutto molto bello, ma sembra una GMG. Come dovremmo agirlo questo cambiamento che vogliamo nella
pratica?”
Questa non scelta in realtà credo sia in fondo una scelta. L’approccio dell’Economia di Comunione, dell’Economia Civile, che anche se non è chiaramente descritto come il paradigma di riferimento, è fortemente presente nel gruppo originario che ha pensato l’evento, in molti Ambassador e soprattutto nel Comitato Organizzatore e in tanti giovani tra i più attivi in EoF, è un approccio molto poco “politico”. Il mantra è il cambiamento dal basso, il voto col portafoglio, la promozione di un modo radicalmente diverso di pensare l’economia senza cercare il conflitto diretto con il modo dominante ma provando a cambiarlo da dentro. Non è una questione da poco, quella del “come si cambia”, e anche se personalmente propenderei per percorsi più equilibrati tra cambiamento dall’alto (top-down) e dal basso (bottom-up), il problema è che al momento non è dato porre la questione, approfondirla, e in qualche modo “metterla ai voti”.
Quindi di chi è l’Economia di Francesco? Se è dei giovani di tutto il mondo dovrebbe essere lasciata loro l’opportunità di prendere in mano la chiamata originale del Papa e decidere come darle gambe.

Il futuro è già qui

“Ma grazie a Dio voi ci siete: non solo ci sarete domani, ci siete oggi; voi non siete soltanto il “non ancora”, siete anche il “già”, siete il presente.” (dal discorso di papa Francesco a Economy of Francesco, 24 settembre 2022)
È vero quello che ci ha detto il Papa. Già il fatto stesso di essere lì, finalmente in mille giovani da tutto il mondo (i limiti della pandemia non hanno ancora permesso di recuperare il numero di iscritti originario e in più ci si è tristemente messo il governo italiano, negando il visto ai partecipanti di una serie di paesi, soprattutto africani, ritenuti “a rischio di non rimpatrio”), è il segno che questa economia che uccide non è l’unica realtà. Non è vero che non ci sia alternativa (T.I.N.A.), e le alternative sono già realtà, ancorché minoritarie, in tanti luoghi del pianeta.
Questa speranza forte, per quel che mi riguarda, è stata corroborata ad Assisi anche da altri due fattori: le persone, e le idee.

– Le persone: ho incontrato ad Assisi, nelle riunioni del mio villaggio Finance and Humanity e nei tavoli di discussione libera aperti ogni giorno sulle tematiche più svariate, giovani economiste ed economisti, ragazze impegnate in politica, imprenditori e attivisti africani, sudamericani e asiatici, che sono portavoci di cambiamenti in atto nelle comunità locali, di imprese benefit e sostenibili nate un po’ ovunque, rappresentanti di un’elevata consapevolezza dei problemi e di una notevolissima competenza pratica. Entle, che organizza le donne in Botswana per renderle autonome finanziariamente; Cristina, che sogna un partito ecologico della giustizia sociale e intanto si impegna per rinnovare i verdi italiani dal suo seggio consigliare in Veneto; Henry, che ha fondato un’impresa di comunità sostenibile in Benin; Vitor Hugo, che diffonde nei movimenti popolari in Brasile l’idea dell’ “Economia di Francesco e Chiara”; Ching Wei, che lavora dentro al ministero dell’Economia di Taiwan e Claudio che lavora alla BCE. Se è vero che la strada è lunga, sono lunghe anche le gambe per percorrerla.

– Le idee: come spesso accade di sentire quando si parla dei problemi più gravi e complessi che attanagliano il mondo, alla fine, delle soluzioni ci sarebbero già. Anche in questo caso non si tratta ovviamente di oscure ricette miracolose che da sole sarebbero in grado di raddrizzare le storture di una realtà assai complessa per essere ridotta a qualcosa di “risolvibile” in poche mosse, ma di punti di riferimento operativi concreti su cui basare la speranza di un lavoro di cambiamento. Ne cito quattro:

1. l’economia della ciambella: dell’inadeguatezza del PIL per misurare il benessere si discute almeno dagli anni ’60, ma sta di fatto che ancora su quell’indicatore si basa il “rating” di un paese e quindi la sua credibilità e possibilità di accedere alle risorse globali. Kate Raworth, una delle economiste Ambassador di EoF ha elaborato da anni un modello alternativo (non è l’unico) particolarmente efficace: l’economia della ciambella. In grado di misurare quantitativamente attraverso una serie di indicatori dove si colloca un paese in una classifica che non è più lineare (influenzata esclusivamente dal progresso umano) ma circolare (combinando il benessere con il rispetto dell’equilibrio ecologico/ambientale).
Nessun paese al mondo riesce al momento a stare dentro ai limiti della “ciambella”, e cioè a garantire un livello di benessere minimo ai suoi abitanti senza danneggiare il clima e l’ambiente naturale in nessuna delle sue componenti, stando cioè in equilibrio, con un consumo di risorse adeguato alla sua sostenibilità sul lungo periodo. Con un indicatore di questo tipo l’economia globale considererebbe più affidabile ad esempio il Vietnam (benché non sia ancora nel quadrante D, ma è quello che ci si avvicina di più) della Norvegia. È chiaro che a questo ragionamento sottostà una scelta che ancor prima che etica è antropologica: quella sulla questione dei beni comuni.

2. il bene comune : Gael Giraud ci ha parlato in un appassionante intervento venerdì sera di una questione filosofica di fondo: a suo dire la proprietà privata e l’interesse individuale non sono mai stati considerati un diritto naturale da nessun pensatore fino a John Locke.
Era sempre stato chiaro che al di sopra di essi c’è il bene comune, unico diritto naturale, e che questi diritti fossero invece positivi. Solo di “recente” anche la Chiesa ha effettuato dichiarazioni in tal senso, in particolare con la Rerum Novarum, ma proprio in quell’enciclica appare la contraddizione insanabile tra l’idea coerente con il Vangelo che ci siano dimensioni più importanti dell’individuo, e l’idea “moderna” dell’individuo a misura di tutto. Questo modo di pensare della modernità occidentale ha liberato energie potentissime nell’umanità, ma ha anche prodotto scelte etiche devastanti (per citarne una la questione della proprietà intellettuale dei beni come prioritaria rispetto all’interesse collettivo nei trattati internazionali sul commercio che per citare gli ultimi effetti ha permesso la privatizzazione dei vaccini e la massimizzazione del profitto di pochi di fronte ad una tragedia planetaria) A suo dire la battaglia culturale è innanzitutto lì. Solo cambiando nella coscienza delle persone questa idea dell’individuo come misura ultima, che si è innestata negli ultimi secoli, possiamo ridare centralità all’interesse collettivo, che è quello planetario, di tutte le creature.

3. tassare i ricchi: sempre in una discussione tra i giovani e Giraud è emersa una questione interessantissima riguardo le difficoltà con cui (non) procede la transizione ecologica/energetica formalmente professata come prioritaria da tutti. Nella sua esperienza ci sono due grandi ostacoli: i ricchi sono il primo. I possessori di grandi patrimoni in ogni paese vivono sopra gli standard sostenibili e vanificano i piccoli successi di cambiamento negli stili di vita che, un po’ per forza, hanno adottato alcune fette di umanità, in particolare le classi subalterne dei paesi avanzati negli ultimi decenni. La ragione è che pensano ancora di salvarsi da soli, in un futuro in cui la tecnologia renderà vivibile per pochi un mondo radicalmente cambiato. È un’illusione stupida, ma a suo dire ancora presente e alla base di uno scarso impulso dei grandi patrimoni per il cambiamento sistemico. L’altro problema però è più grave, ed è la finanza. La finanza vorrebbe cambiare, dice l’ex-banchiere di investimento che la conosce bene, ma “non può” perché è fortemente compromessa con l’economia “brown”, i settori energetici fossili. Un’analisi recente sulle 10 maggiori banche di ogni paese europeo racconterebbe che più di metà dei loro asset sono interamente “fossili”. Se la transizione si compisse nei tempi necessari sarebbe troppo rapida” per evitare un crollo del sistema bancario che perderebbe il valore di quei capitali. E allora? La soluzione è elle Banche Centrali. Con un aumento di liquidità che “sostituisca” gli asset sporchi in pancia alle grandi banche, e finanzi la transizione impedendo che si perdano posti di lavoro. Ma quanto può crescere la bolla del denaro nominale sopra ad una torta dell’economia reale che rimane sempre la stessa? Anche qui: “basterebbe” fare due cose. Espansione monetaria contemporanea tra tutte le principali aree monetarie del mondo, per evitare speculazioni competitive sul valore della moneta, e… forte tassazione dei grandi patrimoni, sempre contemporanea, per spostare soldi impegnati in finanza pura su investimenti pubblici nella transizione. Di per sé poi l’ammontare dell’operazione riguarderebbe secondo i suoi calcoli non più del 2% del PIL Francese (stando sulla Francia) all’anno fino al 2050. Non poco, ma non impossibile.

4. reddito universale di base: in diversi tavoli tematici si è discusso del UBI (Universal Basic Income), tra i partecipanti all’evento c’era ad esempio anche Eduardo Matarazzo Suplicy, ex senatore brasiliano tra i primi promotori del reddito di base. È sempre tassando i patrimoni più ricchi che è possibile pensare di ridurre le disuguaglianze e dare una risposta anche al “grido dei poveri” insieme al “grido della Terra”. Anche qui è di Gael Giraud una sintesi efficace: “La Banca mondiale ha identificato la soglia della povertà estrema al livello di 1,9 dollari di retribuzione giornaliera, a parità di potere di acquisto. Ma è opinione largamente condivisa tra i ricercatori economici che questa convenzione sottostimi ampiamente i bisogni reali di un essere umano sano, capace di condurre una vita dignitosa. Un reddito minimo di 7,4 dollari al giorno sembra molto più ragionevole. Nel 2018, oltre 4,2 miliardi di persone (il 60% della popolazione mondiale) vivevano ancora al di sotto di tale soglia. Quale flusso di reddito annuale sarebbe necessario per consentire a questa gente di vivere al di sopra di tale soglia?”. Senza entrare nei dettagli dei calcoli sulla parità del potere d’acquisto, possiamo rispondere che costerebbe una cifra paragonabile al Pil nominale della Cina. Quindi una cifra enorme, ma solo comparando si può stabilire una fattibilità e uno studio di Oxfam che indica come l’1% della popolazione percepisca un reddito annuo complessivo pari a 56.000 miliardi di dollari (l’80% del Pil mondiale). Questo fa dedurre a padre Giraud che la cifra richiesta è un quarto di questa: “sarebbe sufficiente per finanziare un reddito base di 7,4 dollari al giorno (e anche di più) per quella parte dell’umanità che ne è privata. Dopo il ‘prelievo’, al più alto percentile di questi super-ricchi resterebbero ancora in media 47.500 dollari di reddito mensile a persona: questo dovrebbe essere sufficiente per consentire loro di continuare a condurre una vita ‘dignitosa’”.
Insomma, la strada, o meglio “le” strade, sono abbastanza tracciate. Si tratta di percorrerle, e di nuovo, la parte difficile è costruire il consenso politico su scala quasi globale intorno a queste istanze.

  • Giovanni Formigoni

    Coordinatore degli educatori finanziari di Cooperativa Intrecci e membro della Comunità Pachamama di Olgiate Olona in cui vive con la moglie e due figli e coltiva l'impegno per la promozione dell'ecologia integrale.