Dunque, il governo di destra si è insediato. Dopo giorni tormentati intessuti di dispetti e polemiche interne a una maggioranza che, per quanto larga nei numeri figli di una contesa elettorale sostanzialmente priva di veri competitor, si è puntualmente rivelata divisa. Su questioni non di poco momento come l’indirizzo di politica estera e su una leadership malvolentieri subita dai partner di maggioranza. In primis dal malmostoso e sregolato Berlusconi. Una maggioranza al fondo della quale palesemente difetta un rapporto di fiducia.
L’establishment e i media espressione di esso, per tacere della Rai, come da tradizione, già si sono acconciati al potere di turno e ammoniscono a non nutrire pregiudizi. D’accordo. Atteniamoci ai fatti e ai comportamenti. In verità, l’esordio non è stato rassicurante. Si pensi alla elezione dei due presidenti delle Camere: figure dal profilo singolarmente divisivo tutt’altro che congeniale a un ruolo di equanime garanzia. Si pensi alla squadra di governo assai distante dal proclamato “alto profilo”.
Il nostro non è pregiudizio, semmai giudizio, che si concreta in cinque (più una) preoccupazioni. Ci limitiamo a enumerarle per titoli, impegnandoci a tornarci su con singoli approfondimenti. Primo: appunto la politica estera. Alla liaison putiniana di Berlusconi e Salvini, la Meloni oppone un ostentato, oltranzista atlantismo non associato a un affidabile europeismo. Come attestano il recente passato di FdI e le relazioni speciali con partiti e leader europei che semmai rappresentano un problema per la Ue. Ancora nella scorsa legislatura Meloni depositava una proposta di legge che decretava la preminenza del diritto interno rispetto al diritto comunitario (e non solo con riguardo ai principi costituzionali). Una norma suscettibile di minare le basi stesse della Ue. Secondo: la matrice ideologica di stampo sovranista e impastata di vieto tradizionalismo cattolico di cui il neopresidente della Camera è solo l’espressione più estrema. Il cristianesimo equivocato come religione civile, una retorica identitaria di stampo etnico-religiosa che fa presagire problemi sul fronte dei diritti civili. Con evidenti implicazioni sul versante della politica dell’immigrazione. Una visione e una cultura diametralmente opposte a quelle del cattolicesimo democratico nelle quali ci riconosciamo, ove l’ispirazione cristiana è semmai germe di avanzamento sociale, di laicità della politica e delle istituzioni, di apertura universalistica. Terzo: l’assetto, gli equilibri e le garanzie costituzionali. Si pensi alle suggestioni presidenzialiste, agli orientamenti in tema di giustizia e, segnatamente, dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura (non a caso un nervo scoperto in paesi come l’Ungheria e la Polonia, governati da leader affini). Quarto: il fisco. La flat tax, una visione del fisco in aperto contrasto logico prima che giuridico con il principio costituzionale della progressività, è scolpita nel programma delle destre. Del resto, essa riflette, diciamo così, una cultura che ben conosciamo. Quella del leader di FI con i suoi comportamenti e con le sue eloquenti, diseducative metafore tipo le tasse concepite come lo Stato che mette “le mani nelle tasche degli italiani”. Quella di Salvini che parla ipocritamente la “pace fiscale” per intendere sanatorie e condoni. In un tempo di diffusa sofferenza sociale che esigerebbe semmai l’appello alla fedeltà fiscale e alla solidarietà con chi non ce la fa. Quinto: la matrice politico-culturale della premier e del suo partito, largamente egemone dentro la stessa maggioranza. Chi si è prontamente acconciato ai nuovi (?) reggitori, la fa facile irridendo chi farebbe la guerra ai fantasmi di un passato sepolto. Sia lecito obiettare: il passato e la cultura di persone e partiti non sono dettagli; a preoccupare non è il fascismo storico ma il presente e il futuro di chi non avesse smaltito una cultura illiberale e nazionalista; Umberto Eco ammoniva che esiste eccome un “fascismo eterno” che si nutre di intolleranza, autoritarismo, cultura patriarcale, pregiudizio verso il diverso (basta guardarsi intorno); infine – lo vogliamo osservare a chiare lettere – diffidiamo e persino proviamo un certo fastidio verso le estemporanee, leggere, ostentate riconversioni di chi, d’un tratto, si affretta a rinnegare le convinzioni e i miti di una vita. In questo scenario non esaltante, è balenata una luce, quella della “lezione repubblicana” di Liliana Segre nella seduta inaugurale del Senato, che ha ammonito – con parole, lei sì, corroborate drammaticamente dalla sua vita – circa la radice antifascista della nostra democrazia e circa il dovere di riservare più energie all’attuazione che non al cambiamento della Costituzione. Chi, immediatamente dopo la Segre, si è assiso su quello scranno, si è precipitato a dire di condividere tutto. Lo confessiamo: facciamo fatica a crederlo. Pregiudizio o giudizio?
C’è un’ultima preoccupazione, che attiene al fronte opposto: la sua imperdonabile divisione che ha consegnato alla destra una vittoria senza neppure competere davvero. Una divisione che, incredibilmente, sembra riproporsi anche a valle della disfatta. Quando vi sarebbe assoluto e urgente bisogno di una opposizione coordinata oggi che prefiguri un’alternativa domani. Come si suggerisce nel documento dal titolo “campo progressista, ripartire insieme” che riproduciamo in queste pagine. Non sarebbe impossibile perché ha ragione chi osserva che, nel paese, non si è avuta una irresistibile “valanga nera”. Né per quantità (numeri alla mano il paese è diviso a metà), né nella qualità del consenso, che ha inteso premiare una presunta novità. Circostanza che vieppiù segnala gli errori e le responsabilità di chi avrebbe dovuto approntare un’alternativa e che ora è chiamato a un compito ricostruttivo di lunga lena.
Foto ufficiale Quirinale dopo il giuramento