La presenza di don Primo Mazzolari nella Chiesa e nella vita pubblica del Paese ha rappresentato una testimonianza a tal punto viva da costituire ancor oggi un riferimento cui guardare per i credenti e non solo. Protagonista di un’epoca attraversata da due conflitti mondiali, dalla dittatura fascista, dai totalitarismi nazista e sovietico, dall’avvio della guerra fredda, il parroco di Bozzolo ha lasciato la propria impronta lungo l’itinerario del rinnovamento della Chiesa e del suo rapporto col mondo moderno. Noto il suo impegno per “i costruttori di pace”, per i poveri, per l’attenzione all’ecumenismo, un impegno volto altresì ad alimentare la presenza dei cattolici in politica nel segno della fedeltà all’ispirazione cristiana e al principio democratico. Raffigurato ora come ribelle e prete scomodo, “disobbediente”, cristiano inquieto e inquietante, ora invece come “obbedientissimo”, “parroco d’Italia”, Mazzolari va compiutamente restituito alla realtà della sua biografia in modo da “non pietrificare una vita, inchiodandola ad una sola nota”. È questo l’obiettivo che si prefigge Giorgio Vecchio, nel suo Don Primo Mazzolari. Una biografia. 1890-1932 (Morcelliana, Brescia 2025, 273 pp., 25 €), cui seguirà un secondo volume fino al 1959, l’anno della scomparsa.
Un lavoro di grande pregio che si distingue per la straordinaria conoscenza delle fonti di prima mano, per la puntualità della ricostruzione, per la capacità di sottrarre don Mazzolari a definizioni parziali. Lo studioso prende le mosse dagli anni della formazione nel corso dei quali viene fissandosi l’orizzonte entro il quale si snoda la parabola esistenziale di don Primo: “una lettura sapienziale” dell’esperienza umana “entro la quale il ricorso alla Provvidenza divina è in grado di spiegare, ammonire, confortare”. Poi adolescente in seminario a Cremona, dove si riverberano le tensioni della repressione antimodernista e nel contempo restano aperti spazi, grazie al magistero di mons. Geremia Bonomelli, per una formazione libera e critica retta sul primato della coscienza. Una fede, quella di don Primo, esito di una scelta più “razionale e teologica che mistica”, sorretta da “volontarismo” e senso del dovere; una cultura alimentata da una passione bulimica per i classici della narrativa ottocentesca italiana ed europea, dalla frequentazione dei Padri della Chiesa e dei maestri della cultura cattolica francese; una dialettica che lo accompagna al sacerdozio e tale da connotare perennemente la sua riflessione, tra fedeltà alla Chiesa e rivendicazione della libertà interiore del cristiano e dell’uomo.
Mazzolari interpreta la propria missione sacerdotale assegnando centralità alla “cura delle anime”, alla responsabilità pastorale della parrocchia, secondo un’idea alta del proprio ministero che implica non solo coerenza di vita, ma anche “consapevolezza della funzione sociale” e pure “politica” del prete. Dunque, tra eredità del concilio di Trento e anticipazione del magistero del Vaticano II. Vecchio prende per mano il lettore e lo introduce agli anni della Grande Guerra, con un Mazzolari prima neutralista e poi interventista democratico, cappellano militare in Francia, sull’Isonzo con gli alpini e poi in Alta Slesia, per condurlo successivamente alla crisi del primo dopoguerra, alla fondazione del Partito popolare, all’affermazione del fascismo. Don Mazzolari che ha intrattenuto stretti rapporti con Eligio Cacciaguerra e con la sua Lega di ispirazione cattolico-democratica ed ha simpatizzato per il Partito democratico cristiano italiano che ruota attorno a Giuseppe Donati, è inizialmente molto severo nei confronti della formazione sturziana soprattutto a motivo della presenza di Guido Miglioli, criticato per l’imitazione dei metodi socialisti e per il suo neutralismo incompatibile col patriottismo.
Don Primo è fin da subito fiero oppositore del fascismo, “il partito del bastone”, espressione di un neopaganesimo “ripugnante” ed antitetico ai valori cristiani. Ed è anche l’avversione alle liturgie fasciste che contribuisce a portarlo ad un ripensamento in direzione del pacifismo e di denuncia della guerra in nome di un’etica cristiana e civile ad un tempo. Nel nome di una dedizione incondizionata al Vangelo e all’annuncio della misericordia ai vicini e ai “lontani”.