La larga e positiva accoglienza che ha avuto il “piano globale” di Trump in venti punti per Gaza nasce soprattutto dalla prospettiva di una cessazione del genocidio in corso e della liberazione degli ostaggi sopravvissuti. Questi basilari obiettivi dalla forte implicazione umanitaria erano sembrati inarrivabili nelle settimane precedenti: da qui il sollievo generale. Dopo tanto sangue e tanta impotenza, sembra quasi che sia scattato il riflesso: ingoiamo tutto pur di fermare questa tragedia. Lo si vede nelle posizioni dei governi europei, della Santa Sede, di altri soggetti internazionali. È senz’altro difficile discostarsi da questo sentimento. Ma la ragione impone di sviluppare l’analisi, andando a verificare tutto il prevedibile sviluppo. Va da sé che anche questo risultato minimo, ma importante nella congiuntura in corso, non è ancora scontato. L’ultimatum ad Hamas ha sortito l’effetto desiderato da Washington, pur con una coda di negoziati su aspetti non marginali.

Questioni urgenti, problemi aperti di lungo periodo

L’accordo è frutto di una convergenza di interessi (molto spesso economici) di una serie di attori regionali di rilievo su un asse che idealmente abbraccia Turchia, Egitto, Qatar, sauditi e loro alleati, oltre naturalmente a Israele, – che si sono intrecciati con le esigenze politiche dell’amministrazione Trump e gli interessi privati della famiglia del presidente. Bisogna capire se questo recupero della diplomazia e del multilateralismo, sia pure in forme non inquadrate nelle istituzioni internazionali deputate, sia un evento occasionale o il riconoscimento della complessità dei problemi del mondo da parte di Trump. Resta inoltre qualche dubbio sulla capacità della leadership di Hamas di tenere insieme tutte le sue anime e specularmente del primo ministro Netanyahu di tenere sotto controllo le spinte radicali delle componenti della destra suprematista e religiosa della maggioranza.

Diversi aspetti di questo piano, però, sembrano predisporre le premesse per l’aggravamento di molti problemi e per il loro possibile esito tutt’altro che pacifico. Del resto, l’impegno dello stesso Trump nel Medio Oriente nella sua prima amministrazione ci ricorda che risultati apparentemente positivi nell’immediato possono evolvere in processi dagli esiti caotici e violenti.

Certamente questo non è un piano di pace, nonostante sia stato presentato come tale, perché, oltre a non affrontare le questioni di lungo periodo della più ampia questione israelo-palestinese (confini, colonizzazione, status di Gerusalemme, diritto al ritorno ecc.), non fa cenno nemmeno ai problemi nuovi sorti dopo il 2023 a Gaza: si pensi al tema della giustizia transizionale o delle responsabilità per crimini di guerra, per non parlare della irrisolta questione del rapporto tra riconciliazione e impunità.

Il piano parte dall’ipotesi di governare il ritiro israeliano e la ricostruzione, in cambio della liberazione degli ostaggi e del disarmo di Hamas. Sul punto, occorre dire che i tempi del ritiro definitivo sono lasciati nel vago (quando non ci sarà più minaccia per la “sicurezza” proveniente da Gaza… forse quindi mai). E poi che il rilascio degli ostaggi dovrebbe dar luogo al rilascio parallelo di prigionieri palestinesi (questione su cui si addensano già controversie: ad esempio sul ruolo di Marwan Barghouti, il leader su cui molti palestinesi ripongono le speranze di una nuova stagione politica) e a una specie di salvacondotto per i militanti di Hamas che depongano le armi (ma sappiamo che Israele non disdegna le vendette mirate e personali anche a distanza di tempo…).  Non si ferma però qui: anche se non coincide con le posizioni massimaliste del governo israeliano (almeno sul punto in cui esclude annessioni di Gaza e Cisgiordania, minacciate dagli estremisti), ci sono elementi che fanno pensare a un processo trasformativo della Striscia di Gaza, con conseguenze di lungo periodo, che finiscono per ottenere gli stessi risultati auspicati dalle componenti estremiste di Tel Aviv.

Una trasformazione anzitutto materiale: il piano prevede che la ricostruzione sia gestita sul piano programmatico, economico e perfino progettuale da entità estranee al mondo palestinese. Qui c’è la dimensione affarista che si intravede (Kushner, Witkoff, Blair, tutti rappresentano interessi economici), che coinvolgerà anche lo sfruttamento del gas off shore. Il modello adottato è quello neoliberale delle grandi città moderne del Golfo, nate però in prevalenza dal nulla o da piccoli insediamenti rurali. Ma a Gaza c’è una vasta comunità di persone autoctone o di rifugiati dal 1948 e ogni intervento finirà per essere sostitutivo di una realtà molto più complessa. In questo caso si pensa a una trasformazione architettonica di Gaza, in un’ottica che certamente andrà ad aggravare la subalternità dei palestinesi alle logiche coloniali. Su questo punto ci sono accurate riflessioni di studiosi israeliani e palestinesi di architettura, tra cui Eyal Weizman, il cui contributo fondamentale Hollow Land, datato 2007 ma attualissimo, è anche stato tradotto in italiano (Spaziocidio, Mondadori 2022: il ritardo della traduzione di opere fondamentali sulla questione israelo-palestinese meriterebbe un ulteriore approfondimento, perché spiega molto delle carenze del dibattito culturale e mediatico italiano sul tema).

Il piano esorcizza il problema politico palestinese

L’altra scelta critica è la mancata considerazione politica della comunità palestinese. Molti hanno fatto notare l’assenza di una rappresentanza palestinese, reale o perfino fittizia, al momento della stesura del “piano Trump”, che anche nelle forme esteriori non cela la sua natura neocoloniale. Il concetto di “auto-determinazione” viene accennato solo alla fine del piano (al punto 19), come esito di un processo di generiche “riforme” della Autorità nazionale palestinese (Anp, citata solo di striscio quasi come un contentino) e della ricostruzione di Gaza: si tratta degli stessi contenuti di precedenti piani di pace, tutti sistematicamente falliti nella loro ostinazione a definire ex cathedra le forme di autogoverno palestinese, senza nemmeno alcuna parvenza di concessioni da parte di Israele (previste perfino nella disastrosa “road map” di George W. Bush nel 2003). Anzi Netanyahu ha già escluso di vedere in fondo al percorso uno Stato palestinese. Lo smantellamento di Hamas previsto dal piano si concentra sulla dimensione puramente militare dell’organizzazione, e non tiene conto che essa è anche un partito politico ormai radicato – per quanto non maggioritario – che ha raccolto istanze (che non sono solo la “distruzione di Israele”, come dimostra la stessa evoluzione dell’organizzazione islamista e il suo approdo al ripensamento maturato nel 2017) che adesso cercheranno altri sbocchi. La stessa nascita e il rafforzamento di Hamas, largamente favoriti in alcune cruciali stagioni da Israele in chiave anti-Fatah, dimostrano che la direzione esterna della politica palestinese presenta molti rischi anche per Tel Aviv. Infine, c’è la decisione di includere solo “tecnici” (vagamente definiti) e non politici palestinesi nell’annunciato comitato che dovrebbe ricostruire Gaza: comitato che sarà presieduto dal presidente americano, con i suoi interessi personali nel campo immobiliare, e che annovererà la presenza di Tony Blair, ex primo ministro della potenza mandataria in Palestina e già fautore di una guerra nella regione basata su un casus belli inventato. La questione palestinese perde dunque ogni sua connotazione politica e si ridurrebbe a un problema umanitario e securitario. Il sociologo israeliano Baruch Kimmerling ha parlato di “politicidio” in riferimento alla cancellazione dei palestinesi come soggetto politico e sociale autonomo, processo destinato a impedire la nascita di uno stato palestinese anche senza necessariamente ricorrere alla distruzione fisica della comunità palestinese. Kimmerling era arrivato a queste conclusioni studiando le azioni dei governi di Ariel Sharon: oggi la situazione, con una Anp sempre più afona e inconsistente, sembra essersi ulteriormente aggravata. Quanto può reggere una situazione di questo tipo è il vero interrogativo. Non è la premessa di nuovi disordini incontrollabili?

Israele ottiene altri fatti compiuti: ma i costi di questa politica?

Mentre si cancella la dimensione politica del problema palestinese, sul terreno si preparano mutamenti che renderanno sempre meno agibile proprio la ripresa della politica.

L’assetto transitorio della Striscia di Gaza si appresta a diventare l’ultimo tassello di un processo di assorbimento di ulteriori terre palestinesi da parte di Israele: la divisione in tre fasce rievoca quella proposta nel lungo processo di Oslo, senza peraltro una qualche forma di autogoverno palestinese, sia pure con tutti i limiti imposti a suo tempo alla Anp. Mentre la zona cuscinetto, tutta concentrata entro il territorio di Gaza, toglie ulteriore spazio ai palestinesi, in un’area già demograficamente congestionata.

Tutta la storia della questione israelo-palestinese è un susseguirsi di faits accomplis – decisioni e azioni unilaterali che hanno modificato la realtà territoriale e politica sul terreno, imponendo al negoziato successivo di limitarsi a registrarne gli effetti o a discutere di ulteriori problemi stratificatisi su quelli precedenti. Dalla ridefinizione dei confini nel 1949 alla colonizzazione post-1967, fino alla costruzione del muro e all’annessione de facto della valle del Giordano, ogni fase ha consolidato uno stato di fatto poi, almeno in parte, legittimato sul piano internazionale. Il “piano Trump” non si discosta da questa tradizione e la approfondisce: nel presentare la ricostruzione di Gaza come un progetto tecnico e neutrale, istituisce un nuovo fatto compiuto, quello appunto di una Striscia sottratta alla rappresentanza politica palestinese e inserita in una logica di gestione esterna permanente, che trasferisce sul piano istituzionale il processo di espropriazione già compiuto sul terreno.

Tutto questo – non va dimenticato – mentre in Cisgiordania è in corso un’accelerazione della colonizzazione dei Territori occupati e cresce la violenza dei coloni e dell’esercito. I dati dell’ong israeliana B’Tselem, che tiene il conto degli abusi israeliani in Cisgiordania, denunciano un incremento delle demolizioni di case palestinesi da parte di Tel Aviv (dal 1° gennaio al 31 luglio 2025 sono state 741, con la prospettiva di superare largamente le 840 del 2024, anno in cui avevano raggiunto livelli record) e dei palestinesi uccisi (dal 7 ottobre 2023 al 31 luglio 2025 le forze militari israeliane hanno ucciso almeno 936 palestinesi di tutte le età, mentre oltre una ventina hanno perso la vita per mano dei coloni). In maggio, inoltre, il governo israeliano ha approvato la nascita o l’espansione di 22 nuovi insediamenti, alcuni dei quali saranno in aree che disarticoleranno ulteriormente la continuità territoriale palestinese. L’obiettivo ultimo della destra israeliana è l’annessione della Cisgiordania e la crescente e rapida erosione della presenza palestinese conduce proprio in questa direzione.

Siamo dunque lontani da una pace giusta e altrettanto lontani dalla nascita dello Stato di Palestina, oggi riconosciuto da 157 paesi a fronte dei 159 che riconoscono Israele. Più che un passo verso la soluzione, il piano sembra preludere alla piena realizzazione del programma originario del Likud, che nel 1977 dichiarava: “dal Mare al Giordano ci sarà solo la sovranità israeliana”.

Immagine generata con AI dall’autore

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    Ricercatore di Storia contemporanea presso l’Università Iulm di Milano.