“Solo la speranza può farci recuperare quel vivere che è qualcosa in più del sopravvivere. La speranza apre all’orizzonte della sensatezza che nuovamente anima e mette ali alla vita. Essa ci dona futuro.”

Così il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han nel preludio del libro Contro la società dell’angoscia, in cui indica nella speranza la via d’uscita, personale e politica, per tornare a vivere. Per opporsi “all’angoscia e al risentimento che alimentano l’odio”. Terreno fertile per il cinismo e l’autoritarismo. “La solidarietà, l’amicizia, l’empatia subiscono un’erosione. L’espandersi dell’angoscia e il crescere del risentimento innescano una regressione della società nel suo insieme e, in ultima analisi, mettono in pericolo la democrazia”.

Antidoto al presentismo

Forse meglio non poteva essere descritto questo nostro tempo in cui l’angoscia sembra diventare una condizione permanente. Non una crisi passeggera ma uno status che sembra svuotare il futuro di possibilità. In questo contesto, l’angoscia non è solo disagio psicologico. Diventa un vero dispositivo di potere. Riduce la capacità di immaginare, erode la solidarietà, isola. Fino al risentimento: una rabbia senza sbocchi costruttivi che si traduce in sfiducia politica e che può alimentare pulsioni autoritarie.

Ecco emergere il ruolo e la necessità della speranza. Che non rappresenta una illusione o una sorta di superficiale ottimismo. Non è consolatoria, ma è virtù politica: riconoscere che il futuro non è predeterminato e che, agendo insieme, possiamo immaginarlo e renderlo diverso. Appunto, sperare significa “proiettarsi in avanti”. È forza concreta capace di aprire orizzonti quando tutto sembra bloccato; aprire varchi; immaginare l’inedito; intravedere alternative. Significa  rompere la tirannia del “non c’è alternativa” che spesso domina il discorso pubblico. Paralizzati in un eterno presente. Ovvero quel presentismo, unica dimensione della realtà, che riduce l’esistenza a un definitivo istante, privato di radici e di orizzonte. Senza l’insegnamento del passato e senza la promessa del futuro. Senza memorie e senza attese.

Ma possiamo forse porre sullo stesso piano speranza e ottimismo? Per dirlo con Byung-Chul Han, “tanto più profonda è la disperazione quanto più intensa è la speranza. Ed è questa la dialettica della speranza. La negatività della disperazione rende la speranza ancor più profonda. Capace di volare ad alta quota, ha le radici piantate in profondità. Ed è questo che la differenzia dall’ottimismo, a cui manca del tutto la negatività”.

La speranza è al tempo stesso intima e collettiva. Intima, perché restituisce respiro a chi vive oppresso da un asfittico quotidiano. Collettiva, perché restituisce alle comunità la capacità di progettare, di unirsi, di costruire un futuro comune. È un atto di resilienza trasformando le difficoltà in opportunità di crescita e cambiamento.

Contro il narcisismo individualistico del nostro tempo

Ma declinare la speranza significa ancor prima avere consapevolezza delle due derive che segnano il nostro tempo: l’egocentrismo e il narcisismo sociale. Che non rappresentano aspetti distinti o distanti, piuttosto sono direttamente connessi. Tali da condizionare l’etica sociale e, di conseguenza, la vita comunitaria. Così la democrazia. “Oggi, nella nostra società narcisistica, il sangue è effettivamente rinchiuso nella meschina circolazione che non esce mai dall’Ego. Esso non si diffonde più per il mondo. Privi di mondo, noi non facciamo altro che orbitare attorno al nostro Ego. La speranza ha un’estensione, istituisce un Noi, ed è questo che la differenzia dal desiderio o dalla mera aspettativa”.

Eppure, secondo un sentire che sembra talmente espandersi fino ad assumere condivisione diffusa, la speranza si descrive e si percepisce come un sentimento ingenuo. Rappresentabile solo in una visione utopistica per anime belle o limitata all’ambito della fede. Certo è che la speranza deve essere “concepita originariamente e principalmente come una condizione dello spirito”, ricordava Václav Havel. Che ribadiva: “penso, insomma, che quella speranza profondissima e importantissima, l’unica che riesce a dispetto di tutto a tenerci a galla, a indurci a buone azioni e che è l’unica vera fonte della vertigine dell’anima umana e delle sue aspirazioni, la prendiamo per così dire ‘da un altro luogo’. Ed è soprattutto questa speranza che ci dà la forza di vivere e di provare a fare sempre qualcosa di nuovo, anche in condizioni apparentemente disperate, come per esempio sono quelle nostre”.

Una speranza trasformativa La speranza non è un sentimento ingenuo. Ha rilevanza politica. È forza trasformativa. È facoltà di immaginare un futuro diverso, in cui angoscia e risentimento non siano i fondamenti. Con la speranza, invece, diventa possibile trasformare la paura in progetto e il dolore in azione. Non è evasione dal reale. Significa riconoscere che il presente non è definitivo e che l’ordine delle cose può cambiare. Politicamente, sperare significa creare uno spazio condiviso in cui le persone si riconoscono come soggetti capaci di agire e non solo come vittime passive del destino. La speranza non attende un domani già scritto, ma lo costruisce, passo dopo passo, attraverso la responsabilità e la solidarietà.

Crediti foto di Marc-Olivier Jodoin su Unsplash

  • Lucio Romano

    Medico Chirurgo e docente di Bioetica. Componente Comitato Scientifico “Centro Interuniversitario di Ricerca Bioetica”. Senatore della Repubblica nella XVII Legislatura. https://lucioromano.it