Dopo la morte di papa Bergoglio, il 21 aprile, si è sviluppato un “assordante chiacchiericcio” degli ambienti anti-Francesco, tra giornali (e dibattiti televisivi), social e siti Internet, tendenti a sostenere tre tesi: primo, la Chiesa è divisa; secondo, la linea magisteriale del papa defunto era sbagliata, ha reso insignificante il cattolicesimo nell’arena pubblica e sta portando la Chiesa cattolica allo sbaraglio; terzo, il sentimento “tradizionalista”, freddo se non ostile verso Bergoglio, è popolare e maggioritario tra i fedeli.
Oltre a ribadire – nell’occasione “mediatica” della morte del pontefice – temi e motivi da tempo già manifestati (e che vanno dalla «opzione Benedetto» al «codice Ratzinger» alle varie sfumature di tradizionalismo e di cyberbullismo anti-evangelico, allucinato e catastrofista, limitrofo all’irrazionalismo no-vax, terrapiattista, suprematista-bianco), questa riproposizione compatta di un fronte anti-Francesco mira, evidentemente, a condizionare il conclave per spingerlo non tanto verso un’impossibile scelta anti-Francesco, quanto verso la designazione di un papa “di mediazione”, che rallenti e possibilmente blocchi i processi di rinnovamento avviati da Francesco: una sorta di fake Francis.
Il successore determinerà l’importanza storica di Francesco
Questo avvilente chiacchiericcio si è dunque sviluppato, già dal 22 aprile, e indirettamente segnala un aspetto significativo: l’importanza storica del papato di Francesco sarà fortemente segnata dalle scelte del suo successore. Mi spiego: se dopo le aperture di papa Roncalli, il Conclave avesse eletto il card. Siri o, comunque, un Pio XIII, tutto – anche il Concilio appena avviato – sarebbe stato rapidamente chiuso e il pontificato di papa Giovanni XXIII sarebbe stato a malapena ricordato come un tentativo fallito. L’importanza grandissima, invece, che tutti gli storici riconoscono a quel pontificato, dipende, dunque, dall’elezione di papa Montini, che portò a compimento il Concilio e avviò la grande riforma della Chiesa cattolica: certo, con il suo stile (diverso da quello roncalliano e, forse, non da tutti compreso), ma indubbiamente in continuità profonda tra Giovanni XXIII e Paolo VI. Ed è quello che serve anche oggi.
In ogni caso, dopo pochi giorni dallo scatenarsi multiforme di questo fronte, le sue tre tesi sono state smentite dai funerali di papa Francesco: primo, l’omelia vibrante del card. Re (non certo un “progressista”: un cardinale novantenne, nominato da Giovanni Paolo II) ha reso trasparente il sentimento di gran lunga prevalente, senza veri dissensi, nella gerarchia cattolica e le linee di continuità che il nuovo papa porterà certamente avanti; secondo, la corale presenza dei Potenti della terra, anche non cattolici, anche ostili al magistero bergogliano, indica il rispetto di cui godeva l’autorità morale di papa Francesco e l’importanza, ancora significativa, della Chiesa cattolica nei diversi paesi del mondo, inoltre lo stesso discorso del presidente Mattarella, il giorno precedente, per la festa della Liberazione italiana (con la citazione-chiave di papa Francesco), aveva mostrato la vitalità e la significatività dell’insegnamento sociale bergogliano sul piano di una sua possibile valorizzazione etico-civile in senso alto; terzo, la grande partecipazione di popolo – insieme commossa e cristianamente gioiosa (in persona a Roma; in chi ha seguito il funerale in mondovisione; ma soprattutto nelle preghiere delle parrocchie cattoliche dovunque) – ha fatto vedere come il papa defunto era entrato nel cuore dei fedeli, delle persone semplici, soprattutto di quegli “ultimi” che, con la rosa bianca, hanno accolto il feretro del papa a Santa Maria Maggiore. È emerso un affetto popolare forte e diffuso, che ha suscitato “nostalgie di Vangelo” anche fuori della comunità ecclesiale: un affetto semplice, non organizzato da movimenti particolari, un affetto non esaltato ma grato e commosso, come forse non si vedeva dai tempi di papa Giovanni.
Non c’è stacco sulle cose essenziali tra Francesco e Benedetto XVI
Nella vera e propria campagna del fronte anti-Francesco, si è distinto – con vari interventi, anche di segno opposto, ma tutti convergenti nell’opposizione ostile – il giornale «Il Foglio», che – coerentemente con le sue posizioni culturali e politiche – ha soprattutto sottolineato l’addebito ritenuto più grave: lo scarso occidentalismo. Tipico, in questo senso, è un articolo del 22 aprile 2025 di Claudio Cerasa (Un Papa eccezionale che ha combattuto con tutte le sue forze un mito chiamato occidente). Con una riflessione generalmente rispettosa, ma duramente ostile, egli ha sostenuto che il pontificato di Bergoglio è stato «piena» e non «argine» alla deriva dell’occidente e – ancora una volta contrapponendogli Ratzinger – ha rimproverato a Francesco di non essersi opposto alla secolarizzazione europea e di non aver compreso l’insegnamento ratzingeriano e cioè che «la cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma, ovvero dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma». Da qui l’antioccidentalismo di Bergoglio: nella sua critica al capitalismo, nella sua opposizione ad ogni guerra, nel suo ecologismo integrale.
Lasciamo da parte questioni di contorno (come una citazione di S. Agostino, staccata da ogni contesto, anche da tutta la ricca tradizione del magistero pontificio contemporaneo sulla pace, e assunta come un astratto e assoluto dogma) e consideriamo l’aspetto essenziale: «Quello che è mancato, in Francesco, è stata la capacità di trasformare l’Europa, la nostra Europa, in un argine contro l’oscurantismo […] Ma una Chiesa incapace di difendere l’identità dell’Europa, che andrebbe difesa non solo quando si parla di migranti, è una Chiesa che, disse Ratzinger, rinuncia a difendere uno spicchio della sua identità».
A me pare invece: che Francesco è stato in essenziale continuità con Benedetto XVI; che gli europei, i quali, come Cerasa (ma non solo lui), sostengono queste tesi, sono anti-cristiani e perciò rinunciano ad una parte consistente della loro identità, che pure contraddittoriamente esaltano; che papa Bergoglio ha valorizzato l’eredità più alta dell’occidente e ha avviato una rinascita del cristianesimo in Europa.
Il nodo culturale sottostante risale al giudizio sull’Ottocento: il secolo della grande trasformazione capitalistica e il secolo dell’egemonia imperiale di Potenze europee sulla terra. Da allora (e non da prima) l’umanità si è divisa – con una progressione crescente – tra Ricchi e Poveri (fino alla situazione attuale in cui il 10% dell’umanità possiede l’85% delle ricchezze di tutto il pianeta; al restante 90%, il cosiddetto Sud globale, rimane il 15% cioè le briciole). E sempre nell’Ottocento partì il cristianesimo sociale, talvolta pure definito “socialismo cristiano”, che da Leone XIII in poi è sempre stato sviluppato nell’insegnamento sociale della Chiesa: lo Stato deve difendere i lavoratori perché i capitalisti si difendono da soli: un ideale di solidarietà e di democrazia sociale, che ha innervato – tra l’altro – la Costituzione italiana e le basi ideali dell’Unione Europea. Basti ricordare la triade valoriale indicata da De Gasperi: libertà, giustizia e pace. Solo chi non conosce l’insegnamento sociale della Chiesa (compresi – che umiliazione doverlo ricordare! – Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) può considerare una novità le parole di Bergoglio sulla pace, sul disarmo, sull’umanesimo plenario, sull’accoglienza dei migranti, sull’imperialismo del denaro, sull’opzione preferenziale per i poveri, perfino sulla salvaguardia del creato (certo più sviluppata in Francesco, con la Laudato sii, a motivo della maggiore consapevolezza, oggi, del problema). E tale insegnamento non è altro che la proposta del Vangelo al mondo attuale e per guarirne i suoi mali.
La discriminante: il Vangelo
Perché questo è il punto: il Vangelo.
Fin dai primi del Novecento (con l’Action Française) si è sviluppata un’ideologia nazionalistica che si dice cattolica (intendendo il cattolicesimo come “tradizione identitaria”) ma anti-cristiana, perché rifiuta il messaggio evangelico. Così gli attuali esponenti di questa “cristiatura” (una parodia caricaturale del cristianesimo: che a Natale fa il presepe, ma non va a messa; che nei comizi ostenta la corona del rosario, ma senza mai recitarlo e disconoscendo le parole del Magnificat; che fa dei riferimenti cristiani una retorica di odio, di scontro e di violenza) hanno reso Benedetto XVI un simbolo occidentalista, quasi un cappellano delle armate crociate dell’Occidente: e la prima e principale vittima, sia chiaro, di questo atteggiamento è lo stesso Benedetto XVI, il cui pontificato viene gravemente distorto, immeschinito, fortemente svalutato nel senso di un’archeologia formalistica, ritualistica, povera di universalismo e di vita reale: evangelicamente anemica.
Non possiamo in questa sede approfondire e discutere gli aspetti essenziali del pontificato di Benedetto XVI che lo rendono storicamente importante (e gli aspetti, invece, contingenti e caduchi). Ma si deve almeno notare come, pur nelle diversità caratteriali e di sensibilità spirituale (evidenti nel riferimento ai santi del loro nome: Benedetto che fuggì il mondo per la contemplazione monastica; Francesco che camminò per l’Umbria, povero tra poveri), tra papa Ratzinger e papa Bergoglio vi è stata una grande continuità: emblematizzata dal comune riferimento forte a Romano Guardini (e, dietro di lui, a Rosmini e a Manzoni) e dall’enciclica Lumen Fidei. Ancora una volta, l’enorme tratto di continuità è dato dal Vangelo, mentre il cambiamento riguarda aspetti marginali (volutamente enfatizzati con eccesso manipolatorio: così, per esempio, la necessità di chiudere l’esperimento di consentire l’uso del rito antico, sia perché sostanzialmente fallito, essendo nato in funzione dell’accettazione del Vaticano II, da parte dei tradizionalisti, che però non è venuta, sia perché rischiava di generare una “dissonanza cognitiva”).
Ma, insomma, rispetto al secolarismo, si è sviluppata una “opzione Benedetto-Francesco”, che trova le sue travature portanti proprio nella citazione ratzingeriana evocata da Cerasa e che richiama l’immagine di Atene, Roma e Gerusalemme. Si parte dal primato di Gerusalemme, che significa: innanzi tutto primato del Vangelo sine glossa; ma anche (nell’età contemporanea “dopo Auschwitz”) riscoperta dell’ebraicità di Gesù; ma anche “cristocentrismo pneumatiforme” (Gerusalemme come simbolo della Resurrezione e della Pentecoste); ma anche profezia di pace (Gerusalemme città ritenuta santa dalle tre religioni figlie di Abramo, che devono essere in pace tra loro e portare pace al mondo). Atene invece simbolizza le grandi culture umane: il Vangelo, cioè, si incontra con le culture “altre” (europee e non europee), dialoga, si incultura: l’evangelizzazione non è conquista dall’esterno, ma fermento dall’interno che valorizza il buono e il bello di tutte le culture. E infine Roma sta per Istituzioni (diritto e diritti umani, regole di giustizia) che costruiscono una civiltà fraterna e condivisa: non certo (o non più) nel senso imperiale, ma come universalismo istituzionale (quello che si è realizzato con la nascita dell’Onu: al cui livello, come avviene dal tempo di Paolo VI, si pone la Chiesa per sorreggerne e affiancarne l’opera di pace e di giustizia mondiale), con il concorso di tutti i Popoli.
In questo senso, Francesco ha valorizzato l’eredità più alta della civiltà occidentale e cioè quel “principio di umanità” (che dall’Umanesimo cristiano si è sviluppato nell’Illuminismo cristiano fino al personalismo comunitario novecentesco), che ha portato anche alla nascita dell’Onu e che innerva la Dichiarazione universale dei diritti umani: si veda l’enciclica Fratelli tutti. Nel suo ultimo messaggio urbi et orbi, che si può considerare il suo Testamento spirituale, Francesco richiama appunto quel “principio di umanità”. Chi lo nega vuol difendere il corpo dell’occidente, distruggendone l’anima: vuol salvare un suprematismo imperialista, anche a costo di negare la sua cultura più alta (libertà, giustizia e pace: come ho già detto). Si rovescia la prospettiva che Benedetto Croce aveva formulato dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale: ed ecco allora che i sedicenti liberali attuali non possono non dirsi anti-cristiani. E vanno, con arrogante superbia, verso una nuova catastrofe. Questo è il vero effetto culturale di tali posizioni: un ripudio della prospettiva laica crociana.
Distinguere soggettività da soggettivismo
Ma la grande realizzazione di Francesco (se vogliamo in qualche modo “europea e occidentale”, ma solo in quanto “universale”), fin dall’avvio del pontificato e dalla programmatica Evangelii gaudium, è stata la distinzione tra soggettività e soggettivismo, superando le confusioni spesso correnti e che provocano tanti danni, perché portano a rifiutare il bene della soggettività per fuggire il male del soggettivismo. Eppure, sta qui il nodo fondamentale della secolarizzazione: il nodo da sciogliere per porre le premesse dell’Annuncio.
Il soggettivismo, col suo sottofondo nichilista, sta intristendo, inaridendo e polverizzando le società europee e occidentali (ma con una rapida diffusione nel mondo). E tuttavia non si contrasta efficacemente buttando via la soggettività (che significa primato della coscienza, libertà e specificità di ogni persona reale, con il suo genere e quale che sia il suo orientamento sessuale): come avviene quando si pone astrattamente e apoditticamente una morale di comandamenti assoluti, fissi ed estrinseci, calati dall’alto; e quando, conseguenzialmente, si pone, come condizione del possibile dialogo, l’accettazione di valori non negoziabili. In questo modo si butta via il bene della soggettività e si costruiscono muri altissimi di incomunicabilità, che non sono steccati difensivi contro il male, ma muraglie che imprigionano il Vangelo, bastioni dell’autoghettizzazione della Chiesa, che smette di dialogare e comunicare e, progressivamente, declina: perché non è fedele al Vangelo, che dovrebbe illuminare ogni essere umano che viene al mondo. Lo aveva capito – anche prima del concilio Vaticano II – don Milani, il quale diceva: Dio «non guarda ai nostri peccati come a atti oggettivi. Lui guarda solo la volontà che li ha guidati. Un fatto cioè interiore. Un dramma che si svolge tutto, solo in quel breve e segreto palcoscenico che è la nostra mente»; e ancora: «nel gioco democratico non c’è posto per diritti considerati oggettivi da una minoranza. Tutto vi è soggettivo e per quanto insolito e estraneo questo possa essere alla mentalità di un cattolico, ormai che siamo entrati nel gioco bisogna giocarlo lealmente». Francesco, che ha valorizzato don Milani, ha ripreso il senso evangelico, genuinamente umano, della soggettività, facendo perciò vedere come il soggettivismo ne fosse una degenerazione spuria ed avvilente.
Questa fondamentale distinzione (tra soggettività e soggettivismo), dunque, ha portato Francesco a delle importantissime consegue: le acquisizioni più importanti del pontificato.
Innanzi tutto, la necessità della libertà di parola, anche all’interno della Chiesa (da qui l’insistenza sulla sinodalità): senza libertà di parola si mortifica la soggettività.
Poi un annuncio del Vangelo come irrorazione etica della soggettività (cioè la formazione evangelica della coscienza): un fermento di bene in ogni situazione esistenziale concreta; un’etica in situazione che fa crescere il bene possibile; un aiuto vero rispetto ai disorientamenti esistenziali europei e occidentali (si vedano i sinodi sulla famiglia e l’esortazione, di portata epocale, Amoris Laetitia).
Ma, soprattutto, con la valorizzazione della soggettività Francesco ha posto in primo piano la spiritualità – rispetto alla teologia o ad una riproposizione astratta e teorica della dottrina – come si vede nella Dilexit Nos: sentirsi amati dal Cuore di Cristo, in prima persona, e perciò amare tutti gli esseri umani, e tutte le creature, nel Cuore di Cristo e col Cuore di Cristo. Ciò ha rovesciato i vieti paradigmi retorici sulla secolarizzazione: il mondo è vuoto di Dio; Cristo è scomparso, non c’è. Francesco ci ha indicato – con le parole e con i gesti – la grande presenza di Cristo dovunque attorno a noi: nel volto e nelle sofferenze di ogni povero, piccolo, ultimo. Ha visto Cristo nel povero e perciò, da vicario di Cristo, si è chinato a lavare i piedi al suo Signore. Questa trasparenza evangelica ha lentamente aperto spiragli per lo Spirito nella crosta indurita del secolarismo e ha così progressivamente avviato un Risveglio spirituale, che comincia già a germogliare anche in Europa. E che fiorirà, ridando speranza ad una società impaurita, in cui la paura (come arma psicologica di consenso) viene predicata da profeti di sventura, i quali, peraltro, vogliono disseccare le sorgenti (evangeliche) che sole possono impedire sventure e catastrofi.
Crediti foto:
Yakov Fedorov, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons