Sul Novecento molto si è discusso, a partire dalla individuazione dei tornanti cronologici entro i quali può essere ricompreso: un “secolo breve” secondo la fortunata (e spesso abusata) espressione di Eric Hobsbawm, un’ “epoca lunga”, addirittura un “secolo sterminato”, e non solo sul piano della distensione nel tempo. Anche la sua eredità è oggetto di controversie così come divisa continua ad essere la sua memoria a motivo di interpretazioni non riconducibili ad un’unica cifra come documenta il bilancio tracciato anni fa da Mariuccia Salvati. Basta richiamare alcuni titoli: “ ‘900. Un secolo innominabile”, dovuto ad autori vari e ancora: “Il Novecento. Secolo delle ideologie” di Karl D. Bracher, “Il secolo della paura” di Carlo Pinzani, “Il Secolo-mondo” di Marcello Flores, per proporre alcuni esempi, sino al recentissimo “Il secolo mobile” dovuto a Gabriele Del Grande.
Ebbene questo saggio di Giovanni De Luna si distingue anzitutto per l’originalità del punto di osservazione, dal quale l’autore legge il secolo, vale a dire da quello della sua personale biografia che è poi quella di settori significativi della generazione segnata dall’esperienza del ’68. E, insieme, la criticità dello studioso che si misura con gli snodi e i fenomeni fondamentali del secolo, quel secolo che “è stato comunque il nostro” del quale “qualcosa resta” per cui “vale la pena di interrogarsi su questa eredità”. Un “brutto secolo” per la somma di tragedie, di illusioni, di distopie, sino, tra le due guerre, all’ “annullamento della civiltà” che esso ha prodotto, a partire da una “esorbitante visione antropocentrica che è stata il pilastro concettuale del Novecento”.
Oggi, nonostante le indubbie conquiste di progresso, la prosperità e il benessere assicurati a una parte dell’umanità, ci dibattiamo in mezzo a rischi e difficoltà impervie, ritrovandoci divisi tra il pessimismo di previsioni persino catastrofiche e l’ottimismo di opportunità di crescita. Il Novecento è stato anzitutto il secolo della guerra, dei lager nazisti, dei gulag sovietici, della bomba atomica, della corsa agli armamenti nucleari. De Luna propone una drammatica contabilità dei morti nell’intreccio tra guerra, violenza, ricerca tecnologica e scientifica, sistema produttivo e industriale, insistendo soprattutto su quel processo di “politicizzazione della vita”, di appropriazione da parte della politica della “nuda vita” che vede il corpo diventare “posta in gioco delle strategie politiche”. Una “statualizzazione dei corpi” attraverso la quale lo Stato ingloba nella sua sovranità il potere sulla vita e sulla morte degli individui. Con una differenza tra lager e gulag: mentre Auschwitz è esplicitamente volto alla distruzione dell’esistenza dell’uomo, al genocidio di quanti vivono “una vita indegna di essere vissuta”, nel gulag la morte “è un sottoprodotto del sistema”, non una finalità immediata che invece è rappresentata dal lavoro forzato, a disposizione di una parte del vertice comunista contro il resto dei gruppi dirigenti sovietici . Un secolo, il Novecento, iniziato con la Belle époque e poi rovesciatosi nella “bruttura” dei totalitarismi come negazione dei modelli liberali preesistenti e insediatisi nel ventre della civiltà industriale e “nella modernità delle forme di partecipazione politica di massa”: esito di una serie di crisi, vale a dire di rotture, al cui centro si attua un profondo cambiamento della natura dello Stato, del suo rapporto con il mercato e il mondo della produzione.
Nella soluzione totalitaria lo Stato, guardiano dell’ideologia eretta a strumento di controllo, di disciplinamento delle masse, detentore di un potere terroristico, assume un ruolo esorbitante che elimina le libertà e annienta la società civile; in quella democratica –il New Deal rooseveltiano- l’intervento pubblico è finalizzato a rilanciare l’economia, a promuovere il welfare e il sistema di protezione sociale. Guerra, violenza, Stato, partito, ideologia: il Novecento rimanda a tutto questo, ma è pure il “secolo delle ciminiere”, della fabbrica industriale, dei soggetti –operaio e padrone- che ad essa rimandano. De Luna ne ritrova un segno distintivo “nella generalizzazione alla totalità delle relazioni umane, dei metodi e dei valori della produzione industriale, diventati il centro motore della vita sociale”, perlomeno sino al 1973 –l’anno della crisi petrolifera- individuato come data periodizzante che segna la fine della centralità della fabbrica meccanizzata. Il tramonto del modello tayloristico-fordista, consente un aumento dei salari funzionale al consumo e all’affermazione dell’ “uomo a taglia unica” che non solo consuma per vivere, ma esiste per consumare. Non comporta tuttavia il venir meno anche nella new economy tardonovecentesca di un costume ormai pienamente affermato, dilagante, massificato. In effetti il Novecento è stato il “secolo delle masse” che la politica si è ripromessa di guidare e dirigere affermando, in un delirio di onnipotenza, il proprio primato: un “artificialismo politico” di contro all’idea che all’ordine politico per legittimarsi basti plasmarsi sulla natura, che persegue, tanto a Destra quanto a Sinistra, l’utopia del “uomo nuovo”, scontando alla fine del secolo il proprio naufragio a fronte dell’affermarsi del mercato esaltato dai suoi apologeti come “stato di natura”. Fallimento della politica, débâcle del partito in quanto appendice dello Stato si stagliano sull’orizzonte di un mutamento del rapporto di quest’ultimo con la nazione. Un rapporto squilibrato a vantaggio dello Stato che si afferma a Destra col nazionalismo e a Sinistra nel progetto rivoluzionario dei Bolscevichi e che la democrazia rappresentativa si impegna a superare attraverso una dialettica in cui valori e interessi si scontrano e si ricompongono in vista di una sintesi abilitata a moderare e neutralizzare il conflitto. Infine, il Novecento è stato il secolo in cui il dogma del predominio dell’uomo sulla natura si è concretizzato nell’idea che si potesse plasmare l’intero ecosistema senza limiti o vincoli: una grande trasformazione, senza confini tale da coinvolgere l’intero mondo industrializzato indipendentemente dalla forma dei regimi politici che presiedono alle diverse specificità nazionali. Dunque un bilancio del secolo che lo studioso delinea per passare ,“col senno di poi”, ad interrogarsi su quanto il Novecento ci ha proposto.
A fronte della conclusione della “guerra fredda” e delle interpretazioni offerte circa il futuro di un mondo globalizzato, lo studioso valuta criticamente sia la tesi di Francis Fukujama –la fine della storia- che di Samuel Huntington –“lo scontro di civiltà”-, l’una smentita dal fatto che la democrazia non è stato un modello ovunque realizzato, l’altra dalla asimmetria che caratterizza i rapporti tra Occidente e civiltà non occidentali. Cambiamenti geopolitici –bipolarismo, unipolarismo, multilateralismo- si accompagnano a profonde trasformazioni in campo economico –interdipendenza, mercato mondiale, rivoluzione elettronica- e nel mondo del lavoro. Soprattutto sul terreno della guerra s’incontrano rotture profonde rispetto al passato. Contrapposizioni fondate sulla “razza”, le fedi religiose, sulla difesa dell’identità culturale, affiancano le forme classiche dello scontro bellico ; guerre post-nazionali segnano il mercato della violenza con un groviglio di “guerre civili, guerre ai civili, lotte di liberazione e terrorismo”, “guerre per interposta persona” sino alla impossibilità di distinguere tra guerra e pace, sino alla comparsa di inedite “figure del soldato”, non statali, irregolari, che si arruolano per motivazioni ideologiche o economiche.
Nello spazio post-novecentesco, dopo la gelata della crisi economica del 2007-2008, statualità e politica segnano un recupero della centralità novecentesca, ma in termini rinnovati in quanto investite da fenomeni –cambiamento climatico, emergenze ambientali, diffusione pandemica, immigrazione, innovazione tecnologica- che ne ridisegnano ruoli e modalità d’azione. Ritorno dello Stato dunque, ma non quello del welfare o quello disposto a rinunciare a quote di sovranità nazionale per favorire stabilità e pace, ma “lo Stato dei muri” che separa non le ideologie, capitalismo e comunismo –il muro di Berlino-, ma direttamente le persone, “chi difende la propria sicurezza e chi scappa dalla propria insicurezza”. E poi i separatismi, le piccole patrie, i localismi, la somma delle rivendicazioni fiscali, le pulsioni identitarie, protezionistiche, securitarie, la xenofobia.
A questo punto De Luna fissa la sua attenzione sull’intreccio tra nazionalismo, populismo, sovranismo come fenomeno che porta alla luce le difficoltà riscontrate dalla democrazia rappresentativa, “segnando proprio su questo punto la differenza rispetto ad un passato novecentesco dominato dai partiti”. Dunque un post-Novecento caratterizzato da rilevanti cambiamenti, e tra di essi da quello sempre più invasivo costituito dalla Rete, dai suoi “risvolti inquietanti”, dall’intelligenza artificiale con tutto il suo carico di problemi. Forme di comunicazione che trasformano le forme di organizzazione della politica il cui spazio finisce col coincidere con quello del singolo individuo confinato in una dimensione “claustrofobica” sino a smarrire la contiguità fisica vissuta un tempo nella piazza, in fabbrica, nelle sezioni di partito. Alla fine che cosa resta in un tempo che alla rappresentanza sostituisce la rappresentazione nel quadro di una progressiva depoliticizzazione della società? De Luna con onestà intellettuale riconosce gli abbagli di chi, alla ricerca di una “superiore moralità”, ha confuso le degenerazioni della democrazia con la sua stessa sostanza e i suoi fondamenti.
Di fronte alle forme di sfiguramento della democrazia oggi in atto , al rischio di un vero e proprio collasso, ad una Destra “molto aggressiva e forte della conquista di un’egemonia culturale sempre più evidente”, non resta che recuperare il “miracolo” delle origini, “quel biennio italiano ’43-’45 della Resistenza e della guerra civile” caratterizzato dal “rifiuto della passività della delega e del consenso totalitario”, nonché sorretto da istituzioni animate da una “forte carica pedagogica di educazione alla cittadinanza”.