La recente riunione del G20 in India è stata gestita dal padrone di casa Narendra Modi con un approccio diplomatico molto sottile e astuto, attento a fragili equilibri e intenzionato a non scontentare nessuno. I leader occidentali hanno scelto di firmare comunque un documento congiunto finale, con Russia e Cina d’accordo (nonostante l’assenza imprevista e certo non casuale di Xi Jinping). Risultato ne è stato un comunicato da più parti giudicato fin troppo equilibrista, che parlava del conflitto in Ucraina senza citare l’aggressione russa. Nella precedente riunione di Bali si era citata la risoluzione dell’Assemblea dell’Onu contro l’aggressione russa, anche se solo per ricordare il sostegno nei suoi confronti di una maggioranza di paesi. Ora invece si è ricordata la risoluzione, ma non le sue parole chiave, sottolineando comunque le sofferenze umane causate dal conflitto e invitando tutti gli Stati a non usare la forza nelle rivendicazioni territoriali. A parte la riaffermazione di impegni generici sull’ambiente, si è poi notata una riaffermazione del concetto di inammissibilità della minaccia stessa dell’uso di armi nucleari.
Alcuni commenti hanno stigmatizzato tale accordo, definendolo al ribasso, ma è bene notare che non ha molto senso forzare la sensazione di una contrapposizione netta tra l’Occidente e «il resto del mondo». Il G20 è nato proprio, ormai più di vent’anni fa, proprio per allargare il gioco fino ad allora condotto dai leader delle maggiori potenze industriali del mondo, riuniti nel cosiddetto G7. La creazione di un forum con i paesi economicamente (e politicamente) emergenti e alcuni grossi Stati del Sud del mondo, scelti in modo da coprire oltre il 60 per cento della popolazione, oltre il 75 per cento del commercio e l’86 per cento del Pil mondiali, insomma, voleva proprio indicare l’intenzione di tenere aperto un dialogo tra punti di vista diversi, non necessariamente contrapposti. Del resto, le economie del G7 negli anni settanta costituivano i 9/10 del Pil mondiale, nel 1990 ancora i 2/3, oggi rappresentano circa 4/10 del totale, mentre cresce il peso degli altri membri del G20. In termini certamente un poco rozzi, si può dire che il mondo si sta riequilibrando.
Non è proprio di queste passerelle di leader prendere frequentemente decisioni impegnative (non si ricordano in questo senso incontri memorabili del G7, come nemmeno ora del forum allargato), ma il serrato lavoro diplomatico condotto dietro le quinte permette spesso di mettere a confronto le istanze e gli interessi, magari avvicinando ipotesi di compensazione e mediazione. Per cui non è buona norma accentuare le critiche a quello che può sembrare un linguaggio troppo cauto. In questo senso, la scelta di Biden, Scholz, Macron (e anche Meloni, che ha difeso un po’ in sordina la scelta) rispetto a questo passaggio diplomatico è stata comprensibile e condivisibile.
Detto questo, il punto essenziale da notare è che l’Occidente non riesce a trainare automaticamente una maggioranza significativa di paesi, tra quelli maggiormente sviluppati e popolati del mondo, sulle proprie posizioni. Prendere atto di questa condizione non significa assumere un atteggiamento sdegnato e critico, ma cominciare con il comprendere le ragioni di queste differenziazioni, spesso opportunistiche e unilaterali, ma spesso indicative di una distanza reale. Il mondo non si sta solo riequilibrando in quanto a ricchezza e potere, ma sta diventando anche un luogo sempre più complesso rispetto a orientamenti, culture, prospettive, progetti.
Abbiamo assistito in questi mesi alla crescita di una critica impietosa nei confronti di un assetto mondiale, quello della globalizzazione, che fino a qualche anno fa ci era presentato come trionfalisticamente destinato ad allargare sviluppo, pace e democrazia sulla terra. Prendere atto dei limiti di un governo dei conflitti mondiali affidato semplicemente ai mercati è stato un passaggio di consapevolezza utile e necessario. Di qui a esagerare nel senso opposto, parlando di un clima ormai deteriorato, di una deglobalizzazione incipiente, o anzi ormai conclamata, e di un futuro del mondo affidato allo spettro di nuove ineluttabili «guerre fredde», ci sembra il classico rovesciamento delle parti, del tutto scentrato quanto all’analisi e drammaticamente impotente quanto a prospettive.
Infatti, la dura lezione dei fatti non ci sta parlando di una situazione di «guerra fredda» tra l’Occidente e i suoi rivali (a volta a volta identificati con la Russia, la Cina o la somma dei due paesi, o in alcune visioni un indistinto mondo «delle dittature e dell’autoritarismo»). Per la banale ragione che i crescenti motivi di contrapposizione e competizione, che certamente esistono, si stanno sviluppando sulla trama di persistenti interdipendenze, che non sono affatto venute meno. Siamo legati gli uni agli altri da molteplici robusti fili, non siamo più due mondi quasi completamente separati come negli anni più bui della vera guerra fredda.
Quindi, sarebbe del tutto sensato che una leadership occidentale che si scopre minoranza nel mondo, che vede crescere interlocutori magari infidi o nuovi potentati che ripropongono schemi del «non allineamento», utilizzi a fondo questi legami di fatto, oltre che le sue immense residue capacità di influenza culturale e politica per giocare una partita da vera leadership inclusiva del mondo. Si tratta di contemperare interessi, di negoziare intese, di salvaguardare il più possibili terreni concreti di politicizzazione degli scontri. Evitando la deriva verso conflitti sempre meno controllabili, verso una logica di trasformazione dei conflitti in occasioni di guerra e violenza, che si profila minacciosa dietro a tante situazioni delicate. Saremo capaci di questa lungimiranza?