Dopo l’ultimo 25 aprile, una serie di accese polemiche ha ripreso il tema del rapporto della destra al governo con il suo passato fascista. Uno stillicidio di episodi ha riportato al centro la questione. Ci sono stati interventi molteplici e interessanti. È riemerso il riferimento a Umberto Eco con la sua riflessione sul «fascismo eterno».

A me pare un tema cruciale, che andrebbe affrontato peraltro con il cesello e non con l’accetta. Pena il non riuscire a cogliere l’essenza della questione. Ogni critica generica sul punto rischia di venir facilmente sminuita a posizione polemica e infondata. Se tutto è fascismo, niente alla fine diventa realmente fascismo. Occorre quindi chiamare in causa le origini culturali lontane (riflesse e irriflesse), che esistono e condizionano i comportamenti e le posizioni attuali, in modo reale. Ma occorre considerare al contempo anche l’evoluzione avvenuta nei decenni di quella tradizione, con le sue persistenze, le sue variazioni e soprattutto le sue contaminazioni molteplici (dal conservatorismo liberale al berlusconismo fino al leghismo).

Proviamo a schematizzare un’argomentazione in questo senso, almeno in modo evocativo e iniziale, anche e soprattutto per contribuire a un dibattito.

  1. Un distacco esibito ma ambiguo dal passato

La retorica della nuova destra di governo è stata impostata da tempo (ed esplicitamente fin dal periodo pre-elettorale del 2022) con il riferimento all’abbandono del fascismo, di cui si sono citate negativamente «la privazione della democrazia e le infami leggi anti-ebraiche» (Giorgia Meloni). Molti altri esponenti di Fdi hanno preso le distanze dal fascismo storico, peraltro molto raramente giungendo alla critica aperta dell’ideologia, ma piuttosto condizionando il superamento del passato con formule ambigue (sul registro «il fascismo ha sbagliato, si possono criticare alcune scelte… ma ha fatto anche cose buone»). Ricordiamo che il neofascismo del primo cinquantennio repubblicano, in cui si sono formati i nostri protagonisti attuali, era già contraddistinto da un riferimento indiretto al fascismo-regime, in nome di una «idea» mitica, vitalistica e attivistica di fascismo, non sempre collegata alla esperienza del ventennio. Troppi episodi ci fanno capire come il legame di questi militanti con il fascismo-ideologia o con il fascismo-mitologia, così come con i movimenti che si dichiarano ancor oggi apertamente e orgogliosamente neofascisti, sia difficilmente archiviabile con qualche dichiarazione ambigua. Ma il distacco esibito, politicamente e comunicativamente, non si può sottovalutare.

  1. Il luogo retorico della nazione

Il riferimento sostanziale che ha preso il posto del fascismo esplicito, come stella polare ideologica del nuovo mondo di Fdi è un patriottismo piuttosto rigido: la patria e la nazione sono il luogo retorico fondamentale del linguaggio politico della nuova destra. Una patria intesa come comunità naturale e come elemento identitario di distinzione, utilizzabile in chiave interna e internazionale. Conosciamo la teoria di Roger Griffin, che definisce il fascismo (in generale) una particolare forma rivoluzionaria di ultranazionalismo, collegata al mito palingenetico della rinascita nazionale. Nel caso del fascismo italiano, questo orizzonte si chiariva soprattutto dopo la fusione nel 1923 del movimento di Mussolini con il partito nazionalista. C’è qui un riferimento comune di fondo? Appare certo un elemento di continuità, anche se dobbiamo leggerne in modo attento le novità di forma di questo appello alla nazione (meno rivoluzionaria e più difensiva).

  1. La nazione indistinta precede la democrazia e le differenze

Un aspetto problematico di tale patriottismo sbrigativo, nel senso di una potenziale deriva autoritaria, è la concezione di tutte le differenze e in particolare delle contrapposizioni politiche come fenomeni fastidiosi e negativi. Sotto i panni del patriottismo, tendono a venire delegittimati i fisiologici conflitti sociali e politici, di valori e di principi, tipici della società moderna. La democrazia, in sostanza, è secondaria rispetto alla nazione. La polemica di Giorgia Meloni contro l’antifascismo politico trascura del tutto che senza l’eredità antifascista di un’Italia plurale, il neofascismo non avrebbe avuto spazio di agibilità. La patria intesa come «nazione democratica» e pluralistica, la patria dei resistenti e dei combattenti per la libertà, è piuttosto lontana da questa visione. Chi sta fuori (per scelta o per condizione oggettiva) da questa rappresentazione, rigida e approssimativa al tempo stesso, rischia di essere considerato di fatto un nemico della patria (i migranti; i fannulloni del reddito di cittadinanza; i delinquenti disturbatori della quiete pubblica; gli oppositori fastidiosi, «l’élite apolide» cosmopolitica). In questa deriva del concetto di patria e di nazione sentiamo gli echi di un’evoluzione recente, che è andata oltre la sobrietà complessiva del patriottismo democratico tipico della prima stagione repubblicana. Esauritesi le ideologie novecentesche, è ritornata in auge una ideologia nazionale progressivamente irrigidita.

  1. La riduzione del ruolo dello Stato e l’individualismo non palingenetico

Non solo: nella retorica della nuova destra di governo, anche lo Stato appare secondario rispetto alla nazione. A me sembra del tutto chiaro questo discorso nel modo di avvicinarsi alla questione fiscale. Se un presidente del Consiglio definisce “pizzo di Stato” la tassazione, strizzando l’occhio all’evasione, siamo su un orizzonte totalmente diverso dallo statalismo ideologico fascista (gentiliano). Questa incorporazione nell’identità nazionale di una sorta di irrefrenabile pulsione antistatalista non ha niente in comune con la tradizione da Stato etico del regime: si tratta piuttosto della contaminazione di un liberismo piuttosto grezzo tipico nella logica forza-leghista (come identificata efficacemente da Edmondo Berselli nei primi anni Duemila). Del tutto coerente con questo filone è il recupero dell’autorità dello Stato soltanto in chiave «securitaria», più o meno strutturata: il diritto penale come strumento per tutelare la libertà dei «buoni» cittadini, da tranquillizzare nella loro bolla individualistica, pretendendo di difenderli dalle «minacce» contemporanee, non da mobilitare in un progetto palingenetico di «nuova civiltà».

  1. La deriva verticistica del potere e la semplificazione populista

Altro elemento collegato è che la nazione viene intesa come corpo mitico interpretato dai governanti (su mandato del popolo, ottenuto nel momento elettorale). C’è qui un elemento di deriva personalistica del potere, rafforzatosi nei decenni, che in una società fragile e frammentata come quella italiana è certamente a rischio di sviluppi problematici. Non a caso si riscontra un’interpretazione estensiva del principio di maggioranza e del nesso tra vittoria elettorale e rappresentanza del «popolo», che risale evidentemente almeno al berlusconismo. La rilettura radicale della democrazia maggioritaria arriva a sostituirsi surrettiziamente alla costituzione e alla sua opzione per un governo parlamentare. Si colloca in questo stesso orizzonte il fastidio verso le istituzioni di controllo e garanzia: la lotta contro la magistratura e la sua autonomia (rappresentata piuttosto come un contropotere politico irresponsabile) è uno sviluppo coerente di questa impostazione, non un ammennicolo contingente. La semplificazione propriamente populista della concezione mitica della delega degli elettori al governo si riscontra in molti modi di dire e agire: si può procedere senza tanti scrupoli a realizzare quello che «stava nel nostro programma», perché «ce l’hanno chiesto gli italiani». Questo anche a fronte di compiti complessi come il mutamento della costituzione: una maggioranza politica come si può intestare un mandato costituente?

  1. Identità nazionale e reti internazionali: il «sovranismo» occidentalista

In termini internazionali, l’appartenenza identitaria nazionale diventa componente essenziale del ruolo del paese rispetto al mondo, alla comunità internazionale e alle alleanze. Tale affermazione del primato della nazione facilmente si dipana anche come risposta a un nemico, via via strutturabile a seconda delle evenienze. La versione di Giorgia Meloni è attualmente atlantista, tiepidamente europea e trova il nemico fuori dall’Occidente. Al momento la destra di governo ha scelto rispetto all’Ue una posizione non isolazionista e non indipendentista (la Brexit ha insegnato forse qualcosa?), ma piuttosto «sovranista», cioè portata ad accettare l’interdipendenza ma sorvegliandola attentamente, ponendo ostacoli a ogni rafforzamento della logica sovrannazionale, utilizzando più o meno abilmente poteri di interdizione e di veto. L’Europa viene intesa come «comunità di nazioni», come «l’Europa delle Patrie» vagheggiata da de Gaulle e sostenuta già da Almirante. Una versione che anche in questo senso non richiama direttamente la roboante retorica fascista, ma che non è particolarmente solida, potrebbe oscillare rispetto alle opportunità del momento.

  1. L’uso politico della religione cristiana come integrazione civile

Bisognerebbe poi ricollocare in questo quadro anche il discorso sulla religione, concepita come elemento della tradizione e dell’identità nazionale indistinta di cui sopra. Ancora una volta non si tratta di un uso «fascista» in sé. Il regime giocò con la Chiesa e con la religione una partita complessa, che aveva dentro sia un elemento di utilizzazione della religione come forma di sapere elementare in chiave di stabilizzazione popolare (la religione a scuola e il Concordato), sia una competizione con il cattolicesimo sul controllo dell’ethos pubblico in una società di massa (in una logica totalitaria ed esclusivista). Oggi l’appello meloniano alla tradizione cristiana sembra più ricollegabile a un modello di convivenza tipico degli «atei devoti» di tradizione liberalconservatrice. Un uso del cristianesimo come «religione civile», certamente a rischio di blasfemia o almeno di forte frizione con una visione evangelica. Su cui – come nel caso del precedente salviniano – sembra ancora una volta troppo fragile la riflessione critica ecclesiale.

Un «postfascismo» instabile?

Per concludere, alcuni studiosi hanno usato il concetto di «postfascismo» proprio per identificare una transizione che al momento si svolge nel quadro delle democrazie attuali, ma non è escluso conosca evoluzioni in un senso o nell’altro. Pur tenendo conto delle radici lontane, sorvegliare gli sviluppi attuali di questa dinamica (che non è solo italiana, come è ben noto) appare molto più importante.

(Foto: www.wikipedia.it)

 

 

  • Guido Formigoni

    Professore di Storia contemporanea e Prorettore vicario, Università IULM - Milano. Coordinatore della rivista web Appunti di cultura e politica.