La ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della Liberazione ha visto una nutrita serie di manifestazioni commemorative e convegni di studio, nonché la produzione di ricerche e pubblicazioni volte a collocare il 25 aprile 1945 nel quadro della storia dell’Italia contemporanea. Un rilievo del tutto particolare assume senza dubbio il lavoro curato da Focardi e Peli: una raccolta di saggi che può certamente essere annoverata per l’originalità dei contributi e il loro spessore al livello delle grandi opere della storiografia resistenziale. Per intenderci, quelle di Battaglia, Quazza, Pavone e dello stesso Peli, lo storico bresciano, oggi il più autorevole studioso della lotta di Liberazione. Si devono infatti a lui l’apertura di nuove piste di indagine – il tema della violenza partigiana – e una interpretazione della “Resistenza difficile” definitivamente sottratta alle suggestioni della rettorica. Nel caso del volume in questione, al centro degli interventi sta non la Resistenza complessivamente intesa, ma la guerra partigiana. Quindi non i partiti, i programmi politici, i conflitti sociali, gli Alleati, gli organismi di direzione della lotta, il dibattito sulla futura forma istituzionale, l’“altra” Resistenza senz’armi, o la dimensione dell“essere resistente”, ma per dirla con Nuto Revelli, “il partigiano così come era e non come vorremmo fosse stato”.

Dunque, il partigiano che combatte, si trova ad uccidere e si fa uccidere. La guerra partigiana viene pertanto rivisitata lungo tre prospettive: quella di chi e come combatte, quella di come è vissuta, con quali passioni e in quali condizioni, e poi di come è raccontata a più livelli, in ambito letterario, cinematografico, della manualistica scolastica e della saggistica storiografica. Impossibile dare conto dei molteplici temi analizzati. Dunque solo alcuni richiami di un impianto che si sforza di offrire della guerra partigiana una rappresentazione aliena tanto da un esaltante paradigma vittimario quanto dall’idea illusoria di una inclusività priva di reali riscontri. Anzitutto “non fu scontato prendere le armi per chi non ne avesse precedente esperienza”, né lo fu “accettare la violenza come dimensione della militanza antifascista”. Al tempo stesso essere contro la guerra non significava necessariamente voler combattere. Dunque “non una istantanea illuminazione”, ma un processo che annovera smarrimento, istinto di autodifesa, maturazione politica. Il percorso del partigiano e della partigiana – le donne che non solo proteggono, fanno le staffette, organizzano proteste, ma pure combattono in armi – è molto complesso e va sottoposto ad analisi differenziate a seconda della stessa dislocazione territoriale: la lotta partigiana del Sud e dei meridionali al Nord  finalmente sottratta al folklore, alla categoria della eccezionalità, è ricondotta ad una dimensione tutt’altro che estranea alla “guerra di Resistenza”, di reazione all’occupante nazifascista.

E così pure non riconducibile ad un’unica cifra è il rapporto che nella guerra partigiana si istituisce con la necessità del ricorso alla violenza. Se è vero, infatti, che i partigiani non la concepiscono come un fine o un valore identitario, ma come mezzo estremo e contingente, si danno pure situazioni in cui si affermano sentimenti vendicativi tanto più intensi quanto più duri sono i colpi subiti. Fermo restando che la violenza fascista esprime il compimento di un sistema mentre quella partigiana è finalizzata alla libertà da quel sistema, in uno sforzo di disciplinamento teso a prendere anche moralmente le distanze dal nemico. Il volume curato da Focardi e Peli offre inoltre una vasta gamma di affondi che attengono ai nemici dei partigiani, alla presenza di italiani combattenti all’estero e di stranieri che partecipano alla lotta in Italia, al contributo dei militari, nonché ad un vissuto alle prese con problemi di alimentazione e di salute. Alla fine, il grande tema della memoria pubblica, soprattutto dopo lo sfaldamento della repubblica dei partiti e dopo la caduta del muro di Berlino. Sino al trionfo del paradigma vittimario, alla memoria denigratoria e camaleontica di Berlusconi, a quella indulgente e afascista della Meloni e a quella ancorata al patriottismo della Costituzione.

Crediti foto: immagine tratta dalla copertina del libro

  • Paolo Corsini

    Già professore di Storia moderna all’Università di Parma, sindaco di Brescia e parlamentare della Repubblica. Presidente dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri, fa parte del gruppo di coordinamento della rivista web Appunti di cultura e politica.