Sull’articolo di Guido Formigoni, Occidente: metafora complessa e usi ideologici («Appunti di cultura e politica», 2025, 3, pp. 28-32, https://appuntidiculturaepolitica.it/2025/04/10/occidente-metafora-complessa-e-usi-ideologici/), apriamo il dibattito. Già il titolo di quel contributo fa intendere la densità di una nozione, che va ben oltre la mera connotazione geografica. Dialogano con l’autore due filosofi. Carmelo Vigna si domanda se l’odierno Occidente non stia andando verso il “tramonto”. A scongiurare quell’esito, con la perdita dei valori più alti di civiltà prodotti, suggerisce di rinvigorire i “fondamentali” del «comune convenire». Dal canto suo, Carla Danani osserva che Occidente è categoria plurale e relazionale. Rimanda al polo dirimpettaio, “Oriente” e ai fecondi intrecci storici, culturali ecc. da salvaguardarsi in spirito di reciprocità, nella tutela della «comune umanità», antidoto alle derive belliche.  


Verso il “tramonto”?

CARMELO VIGNA

Già professore di Filosofia morale, Università Ca’ Foscari di Venezia

Della narrazione storica di Guido Formigoni non dirò nulla. Non sono uno storico. Qualcosa dirò piuttosto sul tempo presente, cui la narrazione mira. Soprattutto dirò qualcosa che intende intercettare le battute finali del testo, che, naturalmente, condivido.

Fra “post-verità” e nuove paure

Quanto al tempo presente, anzitutto. L’Occidente (la “terra del tramonto”) sembra destinato proprio a tramontare. La parata militare cinese dello scorso 3 settembre sembra, infatti, indicare un certo sorgere ‒ e imporsi ‒ dell’Oriente come luogo alternativo della potenza maggiore sul pianeta terra: potenza economica, militare, politica. Tre autocrati (quello cinese, quello russo e quello nordcoreano) paiono allearsi anche in nome dell’inimicizia per l’Occidente. Quel che conta veramente per loro ‒ così lasciano intendere ‒ è la “volontà di potenza”, di nicciana memoria. Cifre venerande d’Occidente come la verità e il bene non contano quasi più? Del resto, è lo stesso Occidente (che le ha create: Atene, Gerusalemme, Roma) a rinnegarle quandoque: basti qui ricordare che da qualche tempo e da più parti ‒ sempre in Occidente ‒ si plaude alla cifra della “post-verità”.

Ma se non c’è più verità, come determinare il bene e il male nella vita pratica degli umani? E se, ancora niccianamente, ci si colloca «al di là del bene e del male», come segnare ragioni e torti nei conflitti, pure quelli di civiltà? Come decidere, se non mediante l’uso brutale della forza? Ora che anche gli Stati Uniti d’America, guidati dall’ineffabile Trump, ricorrono alla minaccia dell’uso della forza (economica e militare) per ridurre alla ragione (!) gli avversari, cosa può ancora ostacolare il trionfo della forza bruta?

Faccio un passo indietro, e mi chiedo: quando la verità è stata detronizzata in Occidente? Non certo semplicemente per opera di Nietzsche. Ma anche non senza l’influsso di Nietzsche. In generale, le grandi proposte teoriche impiegano almeno cinquant’anni, e in certi casi anche un secolo, prima di diventare pratica tra le masse. Perciò, per l’eclisse della verità in Occidente prenderei simbolicamente a riferimento il cosiddetto “crollo delle grandi narrazioni”, avvenuto, come si sa, durante il secolo scorso.

L’ultima di queste “grandi narrazioni” a me pare essere stato il marxismo. Come fenomeno epocale, il marxismo si è rivelato una opaca e sanguinosa vicenda, storicamente da dimenticarsi. L’Occidente neocapitalistico, apparente vincitore, non è sembrato però capace di ereditare tanto peso, perché non è più ‒ anch’esso ‒ una narrazione veramente alternativa. Finita la grande paura generata dalla “guerra fredda”, è subentrata un’altra grande paura in Occidente: quella di dover far fronte non solo all’Africa affamata e all’America latina boccheggiante, ma anche a tutti i Paesi dell’Est europeo, stremati da un’economia largamente fallimentare. Per non dire dei bisogni atavici di alcuni popoli del lontano Oriente, immersi da secoli nella miseria più nera.

Questa paura si è ora, in certo modo, materializzata tutta nelle migrazioni. Milioni di diseredati bussano alla porta di casa nostra e ci chiedono di condividere il benessere di cui ancora in Occidente godiamo. È vero che noi finiamo per dar loro solo le briciole, ma anche le briciole per ora a loro andrebbero bene. Solo che loro sono tanti e, appunto, ci fanno paura. E così, invece di coltivare la speranza delle «magnifiche sorti e progressive», ci troviamo piuttosto a constatare che anche noi stiamo diventando più poveri. I nostri giovani spesso non hanno più davanti agli occhi una storia possibile di rapida promozione sociale. Il futuro è diventato buio per tutti. Tutta la terra è in pericolo, si dice. Anzi, si grida. Crescono persino le minacce di una possibile apocalisse atomica. Insomma, siamo alla disperazione quanto al nostro futuro.

A me pare che oggi vi siano due tipi di disperazione: quella di coloro che temono di perdere quanto hanno già accumulato, cioè la disperazione del mondo occidentale industrialmente avanzato, la nostra disperazione, e quella di coloro che hanno avuto molto poco o non hanno mai avuto niente da madre natura e che vorrebbero partecipare alla fruizione dei beni della terra. Come non pensare che proprio queste due forme di disperazione stanno all’origine di una diffidenza reciproca tra gli umani, oggi così diffusa? Di solito, ci riflettiamo troppo poco. Dovremmo, invece, tentare un po’ più di capire che succede, quando viene meno l’orizzonte del comune reciproco convenire. Quando viene meno la percezione diffusa di ciò che più ci accomuna, non accade solo che si abbia paura del futuro; accade qualcosa di ancor più grave: accade pure che si cominci ad aver paura essenziale dell’altro uomo. Anche solo perché potrebbe impadronirsi con violenza delle cose mie.

I “fondamentali” del comune convenire

Che fare per ostacolare questa irruzione della violenza, che segue inevitabilmente l’eclisse della verità e del bene? Torno alla domanda di prima. Non vedo, dico subito, nuove “narrazioni” cattivanti. Meno che mai la cosiddetta “online life”. Certo, restano pur sempre le “grandi narrazioni” legate alla fede o alle fedi ereditate in Oriente e in Occidente. Ma bastano a guidare il nostro futuro sulla terra secondo la verità e il bene, anziché secondo la brutalità della forza?

A costo di peccare di ingenuità, suggerisco che conviene alzare un po’ il tiro, se si vuole scrutare a fondo il senso della nostra attuale afflizione; cioè conviene alzare il tiro, chiedendo aiuto ‒ per quanto strano possa parere il rimando ‒ ai “fondamentali” d’ogni nostra comprensione delle cose. I “fondamentali”, in realtà, sono noti da sempre, per nostra fortuna. Soprattutto, ci hanno accompagnato da sempre anche nei momenti più bui. In certo senso, i “fondamentali”, proprio perché sempre stanno, nonostante tutto, sempre ci precedono: sono in qualche modo l’indicazione elementare salvifica del nostro futuro.

Ebbene, questi “fondamentali”, piaccia o meno, sono stati da sempre custoditi dalla (buona) filosofia. E quindi, non alludo tanto (o soltanto) a qualcosa come i Dieci Comandamenti (che pure possono ben giocare il ruolo di pratiche indicazioni di buona vita all’interno dei “fondamentali”). Alludo, piuttosto, all’originaria tendenza umana (che è un habitus!) a distinguere il bene dal male (contra Nietzsche), quella tendenza che i teologi medievali chiamavano “sinderesi”; ma alludo pure alle elementari regole del pensare secondo verità (a partire dai cosiddetti “primi princìpi”, già esplorati dai Greci in testi memorabili); alludo, infine, anche a grandi e antiche regole di giustizia come il «neminem laedere» o come l’«honeste vivere» o come l’«unicuique suum tribuere» (e simili).

Ma non basta la giustizia, a mio avviso, perché si possano avere, davvero, buone relazioni di riconoscimento reciproco tra noi umani. Bisogna giungere, per averne, sino all’“amicizia politica”. Che è altra cosa dalla giustizia. Ne sporge. Dove c’è amicizia, c’è già giustizia, mentre dove c’è giustizia, non è necessario che vi sia anche amicizia (già Aristotele lo avvertiva). La giustizia garantisce il rispetto dell’altro uomo, ma solo l’amicizia procede in avanti e giunge sino far vivere la vita umana come un “essere per altri”. Ciò che l’antichissima “Regola d’oro”, specie nella sua versione positiva («Fai agli altri ciò che vorresti fatto a te») ricapitola con geniale e assoluta laconicità (tanto che il Vangelo di Matteo la assimila «alla legge e ai profeti», 7,12) .

Perciò mi pare, a questo punto, di poter agevolmente convergere con le battute finali di Guido Formigoni, l’ultima delle quali esorta a «scavare alla ricerca di radici profonde, capaci di allargarsi sino alle dimensioni di una comune umanità».


“Occidente”, categoria di movimento

CARLA DANANI

Insegna Filosofia morale all’Università degli Studi di Macerata

Si impara molto, dal denso testo di Formigoni, e le sue conclusioni sono, come ogni riflettere fecondo, un invito a continuare a pensare: una consegna. In primo luogo, ad interrogarsi se trasformare “Occidente” da categoria storica in categoria normativa o addirittura metafisica non sia un limite. Dire “Occidente” corre certo almeno due rischi: di evocare un’immagine binaria dell’umanità e della storia, potenzialmente legittimante forme di contrapposizione ideologica, e di lasciarne impensate le forme contraddittorie, raccordandole sotto lo stesso ombrello.

Quale valenza euristica può avere, oggi, il dire “Occidente”? E per averla, tra quali narrazioni deve farsi spazio, quali deve scardinare?

Nel mettere in luce, cosa lascia nascosto il dire “Occidente”?

Pluralità di significati

L’etichetta “Occidente” è una metafora corrente in cui dobbiamo innanzitutto notare il venire a sovrapporsi di più significati: una indicazione geografica, che si vuole ristretta all’Europa, all’America del Nord e, in alcuni casi, anche all’Australia e alla Nuova Zelanda; un riferimento culturale, che indica, come se fosse pacifico, l’intreccio di eredità greca, cristiana e illuminista; un rinvio alla sfera pubblica delle democrazie liberali, in cui si sono venuti affermando, ma sotto l’ombrello della “cittadinanza”, diritti politici, sociali e civili. Nella sua pregnanza di sintesi narrativa, “Occidente” non solo rivela, ma anche occulta: che si tratta di significati problematici già ciascuno nella propria peculiarità e, se si guarda a ciò che sta accadendo nel mondo, che sono in cortocircuito nella loro sovrapposizione. Ha, inoltre, una valenza performativa, che passa sottotraccia solo perché è considerata un’ovvietà: si costruisce per contrapposizione all’“Oriente”.

Decostruire l’ovvietà è un’attività da iniziare sempre di nuovo, perché essa si incrosta silenziosamente e si insedia nell’immaginario per indolente ripetizione, senza farsi accorgere.

E allora vorrei provare ad esercitare un passo indietro, critico di quell’intreccio, mettendo in valore il significato primario dell’indicazione geografica – prima della sua colorazione geopolitica – per trovarvi una chiave che aiuti a comprendere come siano ospitabili, in essa, in modi forse distorti, quegli altri significati.

Provando a pensare “geograficamente” in modo più fenomenologico che ideologico, più corrispondente all’esperienza della Terra e meno all’elezione di un punto di vista privilegiato tra gli altri, si coglie in “Occidente”, innanzitutto, un’indicazione relazionale: si è sempre a-occidente-di…, rispetto-a qualcosa. Più che una posizione – come tale incollocabile, se non convenzionalmente, data la conformazione del pianeta Terra –, “Occidente” è piuttosto una situazione, finanche una direzione, che suggerisce un movimento. E anche se ha un fine, e buone ragioni, un movimento può sempre essere più certo del proprio “differire”, piuttosto che della meta a cui si avvicina. In questo senso, nella figura geografica di “Occidente” c’è il dirsi di un andare verso dove non si è ancora e di un non restare ciò che si era: un andare che non dispone di ciò verso cui va, che, ancora, non è raggiunto. Ma si dice un andare, inoltre, che, mentre va, anche viene-da…

Allora novità e precedenza si mediano nel movimento e si interpretano vicendevolmente, scoprendo che si appartengono: il movimento dell’andare mostra il proprio legame con il venire, venire-da… ovvero l’“Oriente”.

Siamo rinviati non a una polarità binaria ma a un ritmo, un movimento, appunto. Non si deve lasciare impensata, allora, la trama di quelle derivazioni, influenze, intessiture che fanno la storia, la cultura, il modo di vivere che è detto comunemente “occidentale”.

Ma il ritmo binario non basta: corre il rischio di occultare tutto ciò che, nell’immaginario come nel concetto, non si lascia esprimere né come “Occidente” né come “Oriente”. In quella geografia pur suggestiva, resa finalmente dinamica e più ampia, resta comunque invisibile il mondo africano, ad esempio, irriducibile – oltre i colonialismi di varia natura che ne hanno calpestato gli orizzonti – alla polarità tra “Occidente” e “Oriente”. E in quel ritmo non stanno neppure le popolazioni andine, con le loro forme di vita, di organizzazione spaziale e sociale, come non ci stanno gli Indiani d’America e i Maori di Nuova Zelanda. Restano non udibili e invisibili.

Quella metafora binaria sembra riprodurre, come “ovvietà”, il fronteggiarsi di un ordine geopolitico che si imprime finanche sullo strutturarsi del sapere. E induce, per altro, a credere omogeneo ciò che, di fatto, non lo è, come non lo sono: da un lato, il welfare sociale e l’intenzione di dare regole al mercato che, pur tra molte tensioni e anche passi indietro, caratterizzano ancora l’Europa;  dall’altro, un’insistente privatizzazione ‒ specialmente negli Stati Uniti ‒ delle risposte ai bisogni, connessa alla convinzione che il mercato stesso sia di per sé regola.

Possono allora dirsi, entrambi, “Occidente”?

Riserva di senso

Che fare quindi con l’etichetta “Occidente”? Rinunciarvi? Significherebbe rinunciare comunque a una riserva di senso feconda, seppure non esauriente, in cui l’“Occidente” può confrontare e interrogare sé stesso: quella che si dice come un’euristica della distanza in movimento, verso un fine di cui non si dispone, provenendo da una precedente appartenenza. In molti modi può darsi questo andare-verso, come può anche arrestarsi, per presunzione, pigrizia, ignoranza.

Tradimento dell’“Occidente”, allora, sarebbe ogni pretesa di coincidenza con il fine: negazione del movimento, della distanza. Tutto il contrario di quando si legge come tradimento il rifiuto di ergersi a misura del mondo.

Che cosa è stato questo movimento, storicamente, per quella che chiamiamo tradizione europea? Nella sua derivazione greca e illuminista quel fine è stato la verità e quel movimento ha preso la forma della ragione, per la sua derivazione cristiana è stato la fratellanza/sorellanza universale ed ha preso la forma della carità: in movimento nella distanza, tenendosi alla differenza tra sapere e verità (persino negli sforzi della ricerca faticosa di una coincidenza), tra storicità e trascendenza. Apertura alla verità e alla trascendenza, nel movimento di una comprensione sempre finita e situata: lo abbiamo conosciuto, ad esempio, come ragione dialogica, già in Grecia, con il suo sfondo sofistico, sempre oscillante tra ricerca dell’accordo, ricaduta nella stasis ed esaltazione del polemos. Non sono venuti da qui anche l’habeas corpus, i percorsi per la libertà di opinione, per l’obiezione di coscienza, per lo Stato di diritto, per i diritti civili e sociali, oltreché politici, per il diritto di movimento, così come le nuove frontiere dei diritti degli animali e dell’ambiente naturale? Questa origine porta in sé la contestazione di qualsiasi presunzione di assolutezza come di nuove gerarchie autoreferenziali. Certo, essa gode, “per noi”, che abbiamo acquisito il nostro saper pensare e parlare in questo mondo di vita, di una sorta di primazia: ma è quella di una familiarità da cui guardiamo il resto del mondo, sapendo che non siamo tutto il mondo.

Ma allora, se c’è “Occidente” ogni volta che c’è questo movimento nella distanza, non c’è motivo di ritenere che sia possibile ritrovare “Occidente” anche in altre storie: altrove da Occidente?

Nell’impossibile coincidenza al fine, però, sorge una questione ineludibile: come stare senza violenza nel proliferare delle differenze, senza volerle addomesticare, padroneggiare, ridurre? Come reggere il conflitto che evita la guerra e sa stare nell’eterogeneo? Serve la capacità di decentrarsi, di assumere il punto di vista dell’altro, di lasciarsi trasformare dall’altro. Serve anche sapere che si sta sempre in un’appartenenza, in una precedenza inappropriabile. Possiamo chiamare “Oriente” questo senso dell’origine, cui si appartiene in una precedenza di cui tutti portano traccia?

Allora non stanno in modo autentico se non insieme, “Oriente” e “Occidente”: sapendo che ci sono «molti fini» e «molti inizi» (G. Mish, Der Weg in der Philosophie).

Come diceva Formigoni, questo «significa che decostruire (e ricostruire) storicamente l’ideologia dell’Occidente non conduce a una divisione netta tra “noi e loro”; suggerisce piuttosto di scavare alla ricerca di radici profonde, capaci di allargarsi sino alle dimensioni di una comune umanità. Il tema cruciale dell’Occidente all’inizio del XXI secolo appare sempre più l’interrogativo sulla capacità di questo composito mondo a ridire e a risignificare la matrice ideale della propria tradizione (ineliminabilmente connessa alla dignità della coscienza e quindi del consenso e dell’inclusione). Costruendo su questa base il proprio necessario incontro con le molte e problematiche diversità che vivono sotto il cielo comune».

Perché l’incontro accada l’“Occidente” ha un compito, da non rinviare. Trovare e imparare modi di conflitti creativi e non distruttivi, capaci di riconoscimento e rispetto, finanche, di gratitudine.

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    Professoressa ordinaria di Filosofia morale presso l'Università degli studi di Macerata, dirige il Centro Interuniversitario di Studi Utopici.

  • Già professore di Filosofia morale, Università Ca’ Foscari di Venezia.