Piazze piene (di giovani) e urne semivuote rappresentano in modo tagliente il fossato, di elezione in elezione più largo, tra il palazzo delle istituzioni e la piazza della gente. Da un lato cortei e piazze con decine di migliaia di persone, sull’onda dello sdegno per lo sterminio in atto a Gaza. Dall’altro, assenteismo marcato dovunque, con percentuali del 50 per cento (Marche) e anche più (Calabria e Toscana).  Prevedibilmente il fenomeno toccherà anche la Campania e la Puglia, dove, come ovunque, nel 2020 solo grazie al traino del referendum la percentuale salì al 55 e al 56 per cento, ma nel 2015 s’era attestata sul 51 (in Veneto, invece, era del 57 per cento).

La “monarchia del numero” non è attrattiva

L’astensionismo alle elezioni regionali è significativo della disaffezione dell’elettorato anche più di quello alle elezioni politiche. Qui, infatti, lo si spiega anche con l’impossibilità di esprimere le preferenze ai candidati e si tratta di prendere o lasciare il nome o il pacchetto di nomi imposto dai partiti. La possibilità di reintrodurre le preferenze è, infatti, un rimedio che viene sollecitato tutte le volte che, come attualmente, si ricomincia a parlare di riforma del sistema elettorale. Ebbene, alle regionali (come alle comunali) questa possibilità c’è e quindi la maggiore attrattività in teoria sarebbe assicurata, ma il risultato è quello che si vede. L’astensionismo, dunque, non dipende solo dalla possibilità, o meno, di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento, che piuttosto appare come la punta di un iceberg più profondo che attiene al diritto vivente delle istituzioni e al loro rapporto con la popolazione.

Quanto alle istituzioni la riflessione andrebbe rivolta innanzitutto alla funzione del Parlamento, partendo dalla trasformazione che sta subendo la democrazia politica per il fatto che governo e parlamento (che nel classico schema montesquieviano erano separati) hanno finito per avere la stessa fonte di legittimazione (la rappresentanza politica del corpo elettorale) e quindi sono connessi al punto da apparire un continuum. Discorso complesso, per cui ci si limita a rilevare che attualmente c’è in sostanza una bipartizione dei poteri tra governo (con l’accessorio del parlamento) e giustizia, tra funzione politica e funzione di garanzia.  Di conseguenza il peso della funzione di governo, basata sul principio della maggioranza conquistata alle elezioni, viene equilibrato, ma com’è naturale in maniera intermittente, solo dai contrappesi del presidente della Repubblica e della Corte costituzionale (e dei giudici ordinari che le rinviano le questioni) mentre la minoranza parlamentare ha un peso molto ridotto. Quando chi vince prende tutto si instaura una “monarchia del Numero”, che non è attrattiva e genera sfiducia e indifferenza nelle minoranze e nell’elettorato in genere.

Le regioni ridotte ad amministrare (per lo più particolaristicamente)

Quanto alle regioni, la riforma costituzionale del 2001 ne ha fatto venir meno il parallelismo tra funzioni legislative e amministrative (tanta amministrazione quanta l’attività legislativa di competenza). La si può svolgere da allora in ogni caso se ricorrono i criteri di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione. La legge è uno strumento che non ha più la rilevanza che le aveva attribuito la Costituzione. Il primato dell’attività amministrativa ne ha ridotto la portata ad una funzione organizzativa e servente le azioni amministrative decise dai vertici politici.La legge non è fatta di princìpi generali ma di provvedimenti particolari. Del resto, anche a livello nazionale abbondano le leggi-provvedimento a favore di ristrette categorie (balneari, tassisti, ecc.) o addirittura ad personam.

Si capisce che il potere di perseguire obiettivi immediati e circoscritti di carattere politico o finanziario, magari attribuendopiccoli benefici (per stare agli esempi riportati sulla stampa, il biglietto unico per i trasporti dei pendolari) o esenzioni da obblighi nazionali (per esempio, dal bollo auto) è molto ambito. Anche perché si tratta di esercitarlo per cinque anni pieni in quanto l’investitura popolare conferisce al presidente questo potere di durata mentre il Consiglio è un contropotere spuntato, non può contrastarlo fino in fondo se non a pena di scioglimento. Ma appunto perché presidente e consiglio simul stabunt aut simul cadent l’attività e la funzione del consiglio regionale (anche più rispetto al parlamento) vengono ridimensionate e anzi mortificate. Si verifica uno scarto evidente tra l’enorme potere del presidente e la quasi azzerata funzione di programmazione e legislazione del consiglio regionale. Magari, la prevalente funzione amministrativa acquisita dalle Regioni potrebbe farne l’organo di coordinamento delle amministrazioni locali e di potenziamento dei processi di partecipazione ideale dei cittadini, ora che non funzionano più i tradizionali canali partitici. Ma la loro composizione è determinata proprio da ciò che resta di questi canali.

I partiti sono appiattiti sulle istituzioni

Ecco il tasto dolente. Costituzionalmente la funzione dei partiti è quella di associare i cittadini perché concorrano a determinare la politica nazionale, elaborando programmi e controllandone l’attuazione. I partiti dovrebbero provvedere – con metodo democratico, innanzitutto al proprio interno – alla formazione e alla scelta dei candidati, alla determinazione dei programmi, senza occuparsi anche della gestione della cosa pubblica, in modo da poter esercitare il controllo sugli eletti nell’interesse della collettività. Per svolgere quest’ultimo compito occorrerebbe che stabilissero una incompatibilità tra cariche di partito e cariche istituzionali, come del resto è avvenuto fino agli anni settanta per i partiti al governo: chi andava al governo lasciava le cariche di partito e ciò consentiva una fruttuosa distanza tra partito e governo (ad esempio, negli anni cinquanta la Dc bollò semplicemente come “amico” il governo Pella e invitò poi esplicitamente il governo Tambroni a dimettersi senza affrontare il voto di fiducia). 

Ma essi ormai non sono, come invece vorrebbe lo schema costituzionale, luoghi democratici di associazione politica dei cittadini e quindi formazioni sociali “altre” dalle istituzioni. Da partiti sociali, organi della società essi si sono trasformati in organi delle istituzioni, in cui si sono incarnati; non sono più separati ma sono immedesimati nel potere pubblico. Fuori delle istituzioni non son capaci di elaborare e promuovere una cultura politica originale, differenziata dalle altre, che additi criticità e prospettive ai rappresentanti delle istituzioni (cominciando dai propri). La formazione dell’opinione pubblica, e di quella degli stessi iscritti, l’hanno demandata ai social, al massimo, per chi li legge, ai giornali. Non hanno più neppure un’organizzazione diffusa sul territorio e nei luoghi di lavoro, si rivitalizzano in occasione delle elezioni, trasformandosi in comitati elettorali. Non poco influisce il fenomeno delle “liste civiche”, specializzate, come esse stesse dichiarano, nella “politica indiretta”, cioè nella raccolta di voti di scambio, senza idealità politiche che non sia l’occupazione del potere. E poiché la moneta cattiva scaccia la buona il contagio ha reso gli stessi partiti “tradizionali” delle specie di confederazione di gruppi autoreferenziali, delle “neo-tribù” – direbbe Zygmunt Bauman – che fanno capo a singole personalità ciascuna con il proprio pacchetto di consensi.

La desertificazione delle “formazioni sociali”

Naturalmente la crisi dei partiti è parte di quella più generale che ha investito le formazioni sociali come contrappeso al potere governativo. Nel disegno del Costituente le formazioni sociali hanno il compito di attuare quel pluralismo sociale capace di orientare, limitare, condizionare l’esercizio del potere: la loro azione è un po’ la mossa del cavallo, idonea a squilibrare il percorso rettilineo, ma deresponsabilizzante, che dal suffragio elettorale porta direttamente al vertice governativo (o addirittura presidenziale). Se fosse corretto – ovviamente, nella necessaria visione sistematica non lo è – fare una graduatoria ideale delle norme costituzionali potremmo dire che l’art. 2 è superiore all’art. 3, comma 2. Il compito positivo, promozionale di svolgimento della personalità umana è, infatti, attribuito alle libere formazioni sociali (partiti, sindacati, confessioni religiose, associazioni e comitati vari) mentre la Repubblica, di cui lo Stato è elemento principale, ha un compito negativo (rimozione degli ostacoli di fatto allo sviluppo della persona).  Il “compromesso costituzionale” nacque sul “presupposto ideologico” della persona integrata nel pluralismo delle formazioni sociali, argomentato (9 settembre 1946) da Giuseppe Dossetti e considerato da Palmiro Togliatti “base per un ampio terreno d’intesa” e, infatti, prima Lelio Basso e poi gli altri componenti della Sottocommissione vi aderirono.

Ma nel corso degli anni per i partiti s’è registrata una graduale dissolvenza di questo ruolo, non solo per il deficit democratico interno ma, di più, per la deriva populistica, cui tutti più o meno contribuiscono, a rivolgersi direttamente al popolo, agli individui, senza l’intermediazione delle altre formazioni sociali. È la democrazia plebiscitaria, che contempla una convocazione periodica del popolo solo per dare un’investitura. Essa è stata definita (Bernard Manin) “democrazia del pubblico”, con questi caratteri tra gli altri: elezione sulla base dell’immagine, e non della fedeltà ad un partito, non coincidenza tra opinione pubblica ed espressione elettorale, mancanza di dibattito all’interno dei partiti (spostato sui massmedia e in particolare sui social), negoziazioni non tra partiti ma fra governo e gruppi d’interesse.

Riavviare un circuito virtuoso è possibile?

L’astensionismo dimostra che almeno la metà della popolazione non vi è interessata. La crescente distanza degli elettori dalle istituzioni e dai partiti, però, erode la democrazia non solo quantitativamente, per la diminuzione dei votanti, ma anche qualitativamente. E ad ingrossare l’astensionismo è chi ha bisogno della politica del lavoro, della salute, della solidarietà ed è deluso da “questa” politica. La conseguenza è che tra i votanti aumenta la percentuale dei fidelizzati, di chi ha interessi corporativi, costruisce un feudo all’interno dei partiti più grandi quando non liste civiche, non è alieno dal voto di scambio: insomma, aumenta di peso la malapolitica. La diminuzione del voto di opinione, degli elettori “battitori liberi”, rafforza il potere delle segreterie (alle quali garba che “meno siamo meglio stiamo”, per riprendere una battuta di Renzo Arbore) nella scelta dei candidati per i posti di maggior potere. I quali sanno di dover rendere conto non ai cittadini ma appunto alle oligarchie dei partiti, che hanno il potere di confermarli o disarcionarli. Ciò spiega perché – come notava già Joseph Schumpeter – “i politici sono come cattivi cavalieri che si impegnano così tanto nell’impresa di mantenersi in sella da non curarsi più di quale sia la direzione verso cui stanno cavalcando”. L’ideale diventa la manomorta sulle istituzioni con l’occupazione del potere frastagliato in enti, agenzie, asl, aziende partecipate.

Questo è il diritto vivente delle istituzioni. E la scomparsa dei partiti-associazioni non può che assecondare il trend astensionistico. Per provare ad accorciare la distanza tra la piazza e il palazzo occorre recuperare lo spirito costituente che produsse l’avvicinamento del popolo alle nuove istituzioni democratiche e che è espresso icasticamente nell’art. 1 della Costituzione: la sovranità appartiene al popolo, ma non è illimitata perché incontra le istituzioni della Repubblica e quindi viene esercitata nelle forme e, appunto, nei limiti previsti dalla Costituzione. Questo spirito non è andato del tutto disperso, resiste nelle tante formazioni sociali di carattere altruistico e umanitario, di servizio alle persone, all’ambiente, alla pace, ai valori della Resistenza, ed esplode talvolta in movimenti più ampi, pur se bisognosi di prospettive positive al di là del “blocchiamo tutto”, come quello degli studenti per la pace. Sono forme di democrazia attiva, basate sulla volontà e attuate nel volontariato, cui affidare la funzione di contrappeso alla democrazia passiva, basata sul consenso e praticata dai partiti, per riavviare il circuito virtuoso tra popolo e istituzioni.

(Foto di Leonardo Basso su Unsplash)

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    Magistrato e professore ordinario all'Università di Bari, dove ha insegnato Diritto ecclesiastico, italiano e comparato, Diritto costituzionale della pace e Ordinamento giudiziario. È stato deputato per il PDS nella XI legislatura dal 1992 al 1994.