Il 10 settembre scorso, nell’aula di Strasburgo del Parlamento europeo, Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea, ha pronunciato il suo discorso annuale sullo stato dell’Unione europea. Era la quinta volta che le capitava. Si tratta di una occasione importante, serve a tracciare un bilancio che guarda al presente ma che si rivolge anche al futuro dell’azione dell’Unione europea.

Molte attese e molte delusioni si potrebbe dire. Perché quest’anno la presidente pur passando in rassegna le principali questioni all’ordine del giorno della realtà europea ed internazionale non è riuscita a trasmettere, a nostro avviso, la volontà di promuovere iniziative con il coraggio necessario per affrontarle. Dall’Ucraina a Gaza, dalle questioni del riarmo europeo, dai dazi alle questioni oggetto dell’azione della Commissione, tra cui quelle contenute nei rapporti di Enrico Letta e Mario Draghi sul completamento del mercato unico e lo sviluppo di una vera concorrenza che aiuti la competitività e la crescita del sistema economico europeo, su tutto questo abbiamo ascoltato parole ripetute nel recente passato e proposte quasi tutte da definire in un piano legislativo adeguato. Vediamole alcune di queste questioni.

Un ruolo internazionale sbiadito

Sull’Ucraina, al sacrosanto dovere di assistere questo paese dall’invasione russa, non si sono sentite parole volte a cercare (non è facile, lo sappiamo) vie nuove per la diplomazia e il negoziato. Oppure all’incoraggiamento, almeno quello, a imprimere alla politica estera europea una più forte ed autorevole capacità di iniziativa. Non è competenza diretta di Ursula von der Leyen, ma è suo dovere indicare proposte capaci di superare le divisioni esistenti tra i 27 Stati membri. Stessa cosa per quanto riguarda la drammatica situazione a Gaza e le immagini sconvolgenti che vediamo ogni giorno. Certo non sono mancate parole di riprovazione per quello che succede, ma niente o quasi, si è detto (o si sta facendo) per interrompere il massacro della popolazione civile. Blande sanzioni verso Israele e i suoi ministri sono state annunciate (ma dovranno passare al vaglio del Consiglio per essere effettive).

Il richiamo all’aspirazione di un continente che viva in pace, orgoglioso dei suoi valori di libertà rischia di apparire retorico di fronte ad una realtà mondiale in crisi profonda. Si fa fatica a prendere atto che sono cambiati radicalmente i punti di riferimento tradizionali. La stessa categoria di “Occidente” è messa in discussione dal crescente ruolo di quello che si chiama “Sud globale” o della realtà dei Brics che riuniscono India, Cina, Russia, Sud Africa, Arabia Saudita, e tanti altri Paesi, democrazie e autocrazie riunite dalla volontà di cambiare le relazioni internazionali eredità del sistema nato dalla seconda guerra mondiale. Di fronte a questi cambiamenti l’Europa dovrebbe, potrebbe, coltivare più forti ambizioni in ragione della sua forza economica e commerciale e dei suoi valori fondativi di pace e democrazia. A pensarci bene la questione è sul tappeto da molto tempo e, lo ripetiamo, merita ben altre ambizioni se si vuole essere protagonisti.

La questione del riarmo resta nazionale

Un’Europa più indipendente sui temi della sicurezza e della difesa non potrà fare affidamento pieno sugli Stati Uniti guidati da Donald Trump. Il riferimento è alla Nato. Ma allora sarebbe stato più utile parlare di quella che già tempo fa fu definita la creazione di un “pilastro europeo della Nato”, facendo crescere un’Europa della Difesa comune. Invece le proposte recenti di Re-Arm, poi diventate Readiness 2030, puntano a una più esasperata nazionalizzazione in questo campo con il rischio di impiegare (e sprecare) ingenti risorse senza raggiungere l’obiettivo di una vera “difesa comune”. Eppure basterebbero serie misure di armonizzazione tra i vari Stati per raggiungere un risultato che non comporterebbe necessariamente un drastico aumento delle spese militari come prospettato (fino a 800 miliardi euro). Un esempio su questa strada è solo il programma Safe, pronto a fornire 150 miliardi di euro per acquisti congiunti.

“L’Europa è in grado di affrontare questa lotta? È abbastanza unita e consapevole dell’urgenza?”, si è chiesto la Presidente. A queste domande devono rispondere gli Stati membri e le istituzioni europee chiamando in causa la loro capacità di maggiore unità.

Non è mancato, nel discorso, un riferimento ai futuri allargamenti dell’Unione stessa. Se ne parla perché la promessa ai Paesi candidati, e qualche cosa di più attraverso negoziati preliminari, è stata fatta. Un’Unione più ampia e più forte può costituire una garanzia di sicurezza per il Continente. Non c’è dubbio che il futuro dell’Ucraina, della Moldova e dei Balcani occidentali è nell’Unione.

Bene. Ma neanche una parola si è detta e si dice sulle improrogabili riforme necessarie al funzionamento dell’Unione allargata. Come si può pensare di continuare a far vivere l’Unione stessa a 30-32 membri senza superare i criteri di unanimità per la politica estera o per le politiche fiscali?

L’insostenibile massacro di Gaza

Volgendo lo sguardo al sud, quello che sta accadendo a Gaza scuote le coscienze.  Sono davanti a tutti le immagini delle persone uccise mentre implorano di ricevere cibo. Madri che portano in mano i sudari dei loro figli, bambini piccolissimi, uccisi. Genocidio si dice, massacri di guerra. E non solo a Gaza. Violenze e piani di annessione della stessa Cisgiordania in corso di attuazione da parte dei coloni israeliani. Gli insediamenti previsti separerebbero la Cisgiordania occupata da Gerusalemme Est e pregiudicherebbero l’esistenza di uno Stato palestinese. Azioni e dichiarazioni dei ministri più estremisti del governo israeliano incitano alla violenza, contro ogni possibile soluzione fondata su “due popoli due Stati”.

Quello che accade è inammissibile. E le sanzioni proposte, per quanto flebili, non troveranno la maggioranza necessaria nel Consiglio (dicono già di essere contrari Ungheria e Repubblica Ceca, ma anche la Germania e forse l’Italia). Invece si potrebbe, da subito, sospendere i rapporti bilaterali previsti dall’Accordo di associazione Unione Europea-Israele per chiara violazione delle clausole relative al rispetto dei diritti umani.

La recente conferenza alle Nazioni Unite, organizzata da Francia e Arabia Saudita per il riconoscimento dello Stato di Palestina ha avuto un grande sostegno dalla stragrande maggioranza dei paesi Onu, e tra questi Spagna, Gran Bretagna, Irlanda, Canada, Australia.

Questi passi non cancellano certo la riprovazione e la condanna per l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023 nel sud di Israele e la cattura di tanti ostaggi di cui ancora una parte devono essere liberati.  L’obiettivo più immediato, oltre al rilascio degli ostaggi, è un cessate il fuoco che interrompa le immense sofferenze della popolazione palestinese di Gaza.

Scarse dotazioni di bilancio

Tornando all’Unione europea, in coincidenza con le discussioni sul nuovo Quadro pluriennale di bilancio (dal ’28 al ’34), si impone una riflessione seria sulle politiche dell’Unione e sulla loro gestione. Parlando del bilancio, però, una critica non può non essere rivolta alla sua limitatissima dotazione e all’assoluta contrarietà manifestata da parte di quasi tutti gli Stati membri alla crescita di risorse proprie per lo stesso bilancio. I margini di manovra per ogni politica di investimento e di incoraggiamento della dimensione europea degli stessi programmi sono molto scarsi. Si pensa di far fronte a questo limite attraverso riorganizzazione e riforme interne alla struttura del bilancio e della sua applicazione: meno burocrazia, meno sovrapposizioni, meno norme complesse.

Una soluzione, economicamente compatibile, oltre a investimenti comuni, è creare un’economia davvero circolare e aperta alle novità scientifiche e tecnologiche prodotte dall’uso della IA.

Quello che sarebbe in grado di fare il Green Deal europeo. Garantire una transizione giusta per tutti, sfruttando il Fondo sociale per il clima. Quando si parla di competitività relativa a questi settori di punta, si parla di posti di lavoro esistenti o da creare. La Pac (politica agricola comune), per esempio, è stata nei decenni uno dei maggiori successi delle politiche comuni. Adesso per essa e altre politiche, compresi i Fondi strutturali, si invoca meno burocrazia, ma in realtà si pensa ad una diminuzione delle risorse disponibili. Secondo le nuove proposte nel nuovo Quadro di bilancio i finanziamenti europei, ridotti, possono essere integrati da dotazioni nazionali e regionali.

I problemi dei dazi, dei commerci e dei migranti

Quando si parla di competitività e indipendenza non si può non riferirsi ai rapporti con gli Stati Uniti. Si tratta delle relazioni commerciali più importanti. Le merci che esportiamo ogni anno verso gli Stati Uniti superano il valore di 500 miliardi di euro. Da queste relazioni commerciali dipendono milioni di posti di lavoro. Sono queste le ragioni che avrebbero spinto a concludere un accordo sui dazi che permetterebbe di mantenere l’accesso delle nostre industrie al mercato Usa. Si è raggiunto l’accordo “migliore possibile”, si dice. Lo afferma la Presidente che poi sembra contraddirsi affermando che “i dazi non sono altro che tasse”. E, aggiungiamo noi, se ne accorgeranno presto i produttori europei e i consumatori americani.

In questo contesto l’obiettivo indicato dalla von der Leyen come prioritario per garantire l’indipendenza dell’Europa è la necessità di incrementare la diversificazione e i partenariati. Giusto, l’80% degli scambi commerciali avviene con paesi diversi dagli Stati Uniti. Si sono già stipulati accordi bilaterali con il Messico e il Mercosur. E si sta negoziando un accordo con l’India.

Un problema sicuramente centrale nella vita stessa degli europei è quello delle migrazioni. Il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo entrerà in funzione nel 2026. Si propone di triplicare le risorse destinate alla gestione della migrazione e delle frontiere nel prossimo bilancio, in modo da poterla gestire efficacemente e “proteggere le frontiere esterne”. È però evidente che questo non basterà. Anzi, c’è il rischio di riproporre l’immagine di una Europa “fortezza”, chiusa.

Non c’è dubbio che bisogna affrontare seriamente la questione. Basterà varare una politica di respingimento verso i paesi d’origine degli immigrati? Oppure si tratta di costruire un dialogo positivo, e di aiuti, con questi paesi?

Riepilogando: mancano coerenza e determinazione per rafforzare l’Unione

La presidente della Commissione occupa la scena europea da tempo. Forse è il caso di prestare ancora più attenzione a quel che dice e fa. La questione del Re-Arm è cosa nota. L’ambizioso piano soprattutto nella sua declinazione attuale, fa capo ai singoli Stati membri. In questa scelta, che la stessa von der Leyen, come abbiamo detto prima, si è premurata di cambiare nel nome di “Readiness 2030” (Prontezza 2030), è chiaro che come formulata sono gli Stati ad avere la prima ed anche l’ultima parola sul da farsi. Diverso se nella proposta fosse stato visibile e concreto quello che molti rivendicano. La richiesta di una difesa veramente comune! Un’azione dell’Unione nel suo complesso. Contraddittorio e sintomo di una volontà accentratrice è il fatto che si sia fatto ricorso in questa materia all’articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue), per evitare il ricorso al parere del Parlamento europeo.

L’Europa è difficile, ma lo sarà di più se di fronte a scelte così complesse si tenterà di praticare scorciatoie senza adeguata trasparenza e controllo democratico.  E torniamo alla questione propriamente politica. A che gioco sta giocando Ursula von der Leyen? L’avevamo vista all’opera già al momento della sua elezione. Sostenuta dalla cosiddetta “maggioranza Ursula” (Popolari, Socialisti, Liberali e ogni tanto Verdi), non ha mancato di guardare a destra con ampi riconoscimenti al ruolo del gruppo dei Conservatori.

Ci sarebbe bisogno di ben altro. Mettere al centro con più coerenza l’idea di una Europa unita, capace, attraverso la Commissione, di prendere la giusta distanza dai governi nazionali, rispettosa del Parlamento. Impegnata ad evitare la deriva intergovernativa. Sia che si tratti del piano di riarmo che dei dazi assistiamo ad azioni velleitarie, in cui si mescolano, con evidenti sgrammaticature istituzionali, il livello propriamente europeo e quello dei singoli Stati nazionali e dei loro interessi.

Proprio il contrario, verrebbe da dire, dell’intuizione del Manifesto di Ventotene. Eppure le tracce, ben visibili, di una Unione sempre più stretta tra i suoi membri, ci sono e resistono ai tentativi, non solo quelli recenti, di disfarne il tessuto. Mancano però prove sufficienti di coerenza e di determinazione e questo è, sinora, il pericolo più grande che si corre.

(Foto: wikipedia.org)

  • Già funzionario del Parlamento Europeo, è stato anche capo dell'Ufficio di Milano del Parlamento.