Pubblichiamo qui la Lecture del presidente dell’Istituto nazionale “Ferruccio Parri” tenuta in occasione della festa della Repubblica il 2 giugno presso l’Istituto per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea di Venezia.

Ricorre oggi il 79° anniversario di quel 2 giugno del 1946 che ha costituito una data periodizzante per la storia contemporanea del nostro Paese. Sia rispetto al prima che rispetto al poi: la nascita del nuovo Stato sulle ceneri della dittatura fascista, la svolta istituzionale col passaggio dalla monarchia alla repubblica, la conquista per i cittadini del suffragio universale – la democrazia delle masse –, con le donne che finalmente ottengono il diritto di voto attraverso il decreto del governo Bonomi del 5 febbraio del 1945, l’affermazione della democrazia politica retta sulla rappresentanza espressa da partiti tra loro in competizione che tuttavia assumono insieme l’impegno della scrittura della Costituzione, del patto che definisce principi e regole della convivenza associata, nonché le concrete declinazioni del loro esercizio: dalla sovranità dinastico-monarchica, da quella autoritaria dello Stato etico del fascismo alla sovranità democratica del popolo.

Una Repubblica che viene da lontano

 Tutto questo è l’esito di un percorso storico che affonda le sue radici, quanto all’ideale repubblicano in lunghi secoli di storia, da Roma alle repubbliche medievali, e che trova una compiuta elaborazione teorica in Machiavelli. Una elaborazione accentrata sull’idea – Quentin Skinner ha scritto pagine fondamentali in proposito – che la repubblica costituisca la forma di governo più atta a garantire la libertà dei cittadini in quanto permette loro di partecipare attivamente alle decisioni politiche, in cui si sentono coinvolti in ragione di una “virtù civica” volta ad assicurare rispetto dei diritti, stabilità del governo, nonché ad impedire gli abusi del potere. Oggi si direbbe, dopo de Tocqueville, la tirannide della maggioranza. La repubblica, dunque, in Machiavelli contrapposta ai principati, come figura politico-istituzionale in grado di anticipare e prefigurare sviluppi che nella tradizione italiana avranno soprattutto nel Risorgimento ulteriori svolgimenti. Non senza aperture a confronti con teorizzazioni d’Oltralpe e non solo: da Mazzini a Cattaneo, da Ferrari a Pisacane a Cristina di Belgiojoso, ai democratici, ai repubblicani, dal Partito d’azione, agli esponenti dell’Estrema. Come ha osservato recentemente Umberto Gentiloni Silveri “il sogno di una sovranità non più assoluta […] si affaccia con una certa rilevanza a partire dalla primavera dei popoli, collocabile nel biennio 1848-1849”. E a sua volta Eric Hobsbawm “la fine – quanto al significato di quell’esperienza – della politica della tradizione, del potere di dinastie per investitura divina vigilanti su società gerarchicamente stratificate, della credenza nei diritti e doveri patriarcali degli uomini economicamente e socialmente superiori”.

Un processo di nazionalizzazione che sconta tuttavia, e per ragioni diverse, l’estraneità dei “rossi” e dei cattolici a quello Stato liberale poi travolto dal fascismo fino alla propria dissoluzione. È all’interno della Concentrazione antifascista fondata nel marzo del 1927 a Parigi da repubblicani, socialisti, Lega italiana dei diritti dell’uomo, esponenti sindacali della Cgil, che si persegue l’obiettivo dell’instaurazione della repubblica democratica dei lavoratori. Soprattutto tra gli oppositori al regime aderenti a Giustizia e libertà e successivamente al Partito d’azione, si pone formalmente una pregiudiziale repubblicana nel quadro di una sanzione irrevocabile nei confronti delle responsabilità della monarchia imputata di connivenza e complicità con la dittatura mussoliniana, dalla marcia su Roma alle leggi fascistissime, a quelle razziste, all’ingresso in guerra in alleanza con il nazismo hitleriano. Una monarchia che di fatto nel 1943 viene a trovarsi privata della propria potestà al nord in presenza della Rsi e al sud per via delle limitazioni derivanti dall’armistizio dell’8 settembre.

Un passaggio decisivo, esito peraltro delle elaborazioni in campo costituzionale dei partiti che hanno dato vita alla Resistenza, è rappresentato dal Congresso di Bari del gennaio 1944, allorché unanimemente le formazioni politiche del Cln chiedono l’abdicazione del re in vista della composizione di un Governo con pieni poteri “per affrontare la guerra e al fine di predisporre con garanzie di imparzialità e di libertà la convocazione di un’Assemblea Costituente, appena cessate le ostilità”. Faranno seguito anche in relazione al quadro internazionale – il riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’Unione Sovietica e la “svolta di Salerno” operata dai comunisti – la tregua istituzionale e un nuovo assetto costituzionale che introduce con il potere legislativo luogotenenziale una nuova forma di legislazione. Questi per sommi capi i passaggi attraverso i quali si giunge alla consultazione referendaria del 2 giugno 1946 col 54,27% dei voti favorevoli alla Repubblica e il 45,73% alla Monarchia. Un’affermazione che, sottoposta a contestazioni, viene validata dalla Corte suprema di cassazione e che l’abdicazione da parte di Vittorio Emanuele III in favore di Umberto II, “il re di maggio”, nella speranza di poter attrarre il voto popolare a motivo della sua figura meno compromessa col fascismo, non riesce a scongiurare.

Una rottura, un cambio d’epoca, certamente l’inizio di una svolta. Come ha lasciato scritto Piero Calamandrei “mai nella storia è avvenuto, né mai ancora avverrà, che una repubblica sia stata proclamata per libera scelta del popolo mentre era ancora sul trono il re”. Il fatto però che Regno del Sud e Resistenza siano convissuti sino alla Liberazione, il dualismo che ne è scaturito, il delinearsi all’orizzonte della Guerra fredda, della competizione globale tra Stati Uniti e Unione Sovietica, il freno posto dalle forze conservatrici, la stessa permanenza di apparati burocratici e amministrativi compromessi col regime, finiscono con l’impedire una reale discontinuità, frenando quel radicale rinnovamento dello Stato e della società auspicato dalle forze protagoniste della stagione costituente promossa dalla lotta del movimento di Liberazione. Comunque, l’apertura di una nuova fase che impedisce il ritorno allo stato prefascista nonché l’impegno ad affrontare la sfida della rinascita democratica. Un cimento che, tra tensioni, conquiste e arretramenti, segna per intero le due stagioni della vicenda repubblicana, quella della “repubblica dei partiti” e quella della “repubblica dell’antipolitica”. Come è naturale per la democrazia che è sempre un processo in cui modello ideale e realizzazione concreta non trovano definitive composizioni e nel quale il conflitto degli interessi costituisce un dato fisiologico che non può essere rimosso, pena l’alterazione dello stesso principio democratico.

Pedagogia della virtù civile

Il 2 giugno non è solo la data di una ricorrenza, è pure un riferimento che appartiene al calendario liturgico civile entro il quale ricorrono momenti di costruzione di una cittadinanza democratica condivisa sorretta da specifiche iniziative a valenza pedagogica. L’istituzione di una giornata festiva volta a solennizzare la nascita della Repubblica in chiave di pacificazione e riconciliazione nazionale risale al maggio del 1947, su iniziativa di Fausto Gullo, dopo che Giuseppe Di Vittorio ha avanzato l’idea di una giornata accompagnata da una generale sospensione del lavoro: da un lato l’obiettivo dell’unità delle classi lavoratrici nel nuovo quadro istituzionale, dall’altro la ricerca di una legittimazione da parte del Pci non solo come partito della Resistenza ma come partito di affidabilità nazionale.

Ha inizio così una traiettoria che, inaugurata all’indomani del maggio 1949 allorché viene approvata la legge istitutiva del 2 giugno come festa nazionale, attraversa con alterne fortune i decenni repubblicani alimentando una memoria pubblica che sin dall’esordio si divide quanto al significato da attribuire alla ricorrenza attraverso le diverse declinazioni attribuite alla sua celebrazione. Da parte delle istituzioni e dei partiti che nel corso della prima fase repubblicana detengono le leve del potere, l’equiparazione tra festa della Repubblica e festa dell’Esercito; da parte delle opposizioni di Sinistra l’impegno alla sovrapposizione tra festa della Repubblica, Resistenza, Costituzione, pace. Una sovrapposizione che a lungo agisce anche come rivendicazione di una piena sovranità dell’Italia nel quadro di un sistema di relazioni internazionali che dopo Jalta, la vede collocata nella sfera occidentale in una condizione democratica sì, ma a sovranità limitata, retta sulla conventio ad excludendum del Pci e su una sorta di damnatio gubernandi della Dc e dei suoi alleati. Il compromesso costituzionale, come premessa del pluralismo politico ad opera di partiti pedagoghi che occupano gli spazi della società e nel contempo orientano l’opinione pubblica, agisce comunque da fattore di coesione che, nella successione delle ricorrenze del 2 giugno, consente l’affermazione di un sentimento di comune appartenenza e, per dirla ancora con Piero Calamandrei, “un contesto pacifico e condiviso che definisce il perimetro delle azioni possibili”. E questo anche in momenti di aspra contrapposizione tra gli schieramenti politici, dalla estromissione delle sinistre dal governo del 1947, alla spaccatura del 18 aprile 1948 , agli anni del centrismo, alle stagioni della mobilitazione studentesca e operaia.

Un’ulteriore spinta a superare la possibile dicotomia tra festa del Governo e festa delle opposizioni si verifica negli anni in cui la solidarietà nazionale, assunta a forma politico parlamentare, rappresenta la risposta ai tentativi di destabilizzazione antidemocratica della Destra radicale e di “attacco al cuore dello Stato”, di sovvertimento antistituzionale ad opera del terrorismo brigatista. Una costante ricorre senza soluzione di continuità: la figura del Presidente della Repubblica come grande sacerdote della celebrazione della festa, una festa “ufficiale” che, nel tempo, viene assumendo sempre più le sembianze di un evento interno alle istituzioni, con una partecipazione popolare che va progressivamente scemando, e lontano dal Paese reale. La sfilata dell’esercito, la consegna delle medaglie, lo Stato che onora i suoi paladini e i suoi eroi, le processioni ai monumenti nell’intento di consegnare ai cittadini luoghi pubblici della memoria, i ricevimenti ufficiali nei palazzi del potere perdono via via la loro capacità di attrazione, varcando ampiamente i confini della retorica.

La festa sopravvive però ben oltre gli ambiti istituzionali quando in alcune situazioni viene fatta coincidere, su iniziativa di enti ed organismi democratici in larga prevalenza riconducibili alla sinistra, nonché a componenti antimilitariste, con la festa della Costituzione della quale si invoca la piena attuazione, celebrando la Repubblica come “il volto della Patria, la base dell’unità nazionale e della democrazia”, come il risultato più maturo della lotta resistenziale assunta a mito fondativo . Cittadini spettatori delle sfilate da un lato, e cittadini- attori-protagonisti dall’altro, impegno del governo ad “inventare” una ritualità ufficiale e sforzo delle formazioni di sinistra teso a dar vita ad una festosità democratica contribuiscono, pur nelle loro differenze, a rafforzare l’ideale repubblicano nel segno di una memoria che sente di dover tornare al 2 giugno.

Sono gli anni ‘70 a costituire una svolta nella dialettica “tra la gioia di una festa e il valore di una data fondante”. La sospensione del 1976 a seguito del terremoto in Friuli segna l’inizio di un declassamento della festa che, alla luce del dibattito sul nuovo calendario civile dell’anno successivo, si ritrova senza parata militare e agganciata alla prima domenica di giugno, in nome delle esigenze di una produttività non compatibile con la diminuzione delle ore lavorative. Celebrazioni, dunque in tono minore e una memoria sbiadita man mano che ci si avvicina al tornante del passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, in cui campeggiano le parole d’ordine della disunità nazionale e si affacciano sulla scena culture politiche non radicate in quelle costituenti, nel contempo espressione di una memoria ora denigratoria dell’antifascismo e della Resistenza, ora camaleontica al fine di sottrarsi ad imputazioni ricorrenti e di acquisire una legittimazione in ambito europeo e internazionale.

È Carlo Azeglio Ciampi ad impegnarsi in una risignificazione del 2 giugno in nome di un patriottismo costituzionale in linea con il parallelo sforzo profuso per il recupero e la valorizzazione della memoria resistenziale al fine di promuovere una forte riconoscibilità dell’identità nazionale in una stagione segnata da estenuanti fibrillazioni istituzionali e dal venir meno di equilibri consolidati. Nei ricordi del Presidente “il successo della festa rinnovata fu straordinario e imprevedibile”. Dunque, un appuntamento ritrovato e rilanciato in celebrazioni che annoverano la presenza nel corso delle parate di organismi internazionali, di forze impegnate in missioni di peacekeeping nonché in interventi volti a fronteggiare emergenze ambientali così come in operazioni di difesa civile nel segno della fedeltà allo spirito e alla lettera dell’articolo 11 della Costituzione. Una linea di apertura che, a partire dal 2001, vede la presenza delle donne e, con la presidenza di Sergio Mattarella, di volontari del servizio civile, di atleti paraolimpici, di adolescenti invitati sulle tribune a sventolare insegne tricolori. Nelle intenzioni, in definitiva una celebrazione che si prefigge di coniugare sentimento nazionale e democrazia.

Rivitalizzare lo spirito repubblicano

Quale significato attribuire oggi al 2 giugno in un tempo di crisi internazionale, di ritorno della guerra in Europa, di orrori senza fine consumati in Palestina con crimini inenarrabili che, seguiti all’aggressione terroristica del 7 ottobre 2023, evocano persino l’interrogativo del genocidio ? E ancora: in un’Italia alle prese con preoccupanti processi di sfiguramento della democrazia- una democrazia “affievolita, a bassa intensità” nelle parole di Sergio Mattarella –, con una deriva della politica che vede i partiti ridotti a formazioni senza popolo, in caduta verticale di credibilità e il discorso pubblico prevalentemente confinato nei talk-show e nelle bolle dei social network, dove l’affabulazione populista si propaga senza incontrare anticorpi abilitati a fronteggiarla. Un Paese in perdita di memoria quanto al suo passato, di una memoria incapace di custodire quanto va tenuto vivo, di una memoria operante in grado di contrastare le suggestioni di impronta neonazionalista e sovranista che – così anche in Europa – finiscono col dissipare l’eredità della Resistenza, del suo patrimonio di valori e, tra di essi, quelli di un repubblicanesimo vissuto come costume, come interiorizzazione del principio democratico, prima ancora che come indirizzo politico, quelli del pluralismo, della partecipazione, della laicità dello Stato.

Si tratta, dunque, di porre mano in sede politica, sul piano culturale e delle agenzie educative, ad un lavoro di grande lena orientato a rivitalizzare lo spirito repubblicano e i suoi fondamenti. In questa sede, dati i limiti del presente intervento, mi atterrò a quelle che a me sembrano le questioni di maggior rilievo e urgenza, a partire dal tema della nazione, dal sentiment dell’appartenenza ad una identità nazionale collettiva, come fattore di autoriconoscimento comunitario nel tempo della frammentazione, del disincanto, nonché di una presenza diasporica certamente significativa da integrare in un contesto democratico.

Un tema duro da affrontare quello della nazione: secondo taluni un’espressione del passato da abolire nell’immaginario politico a maggior ragione in presenza di una globalizzazione cosmopolita; secondo altri un tema comunque da aggirare perché foriero di pericoli come dimostra la storia del Novecento – il nazionalismo malattia mortale del secolo –, ma che in realtà continuamente ritorna e si riproduce; secondo altri ancora, da rimuovere, perché denso di significati conservatori gestiti dalla destra, come nel caso del “patriottismo” di Giorgia Meloni che considera la nazione come una comunità naturale e non invece come una unità simbolico-politica, storico-culturale,  una forma aggregativo-affettiva attorno alla quale si strutturano lo spazio pubblico, le identità collettive, le stesse relazioni tra Stati. Dunque una nazione da intendere come inclusiva, tale da non alimentare lacerazioni ed egoismi divisivi, da coniugare con cittadinanza – l’autocoscienza civica del popolo dei cittadini – e democrazia. Non il patriottismo della paura per la presenza straniera, ma la ricerca dell’unità nella condivisione del patriottismo costituzionale come fattore di legittimazione dell’ordinamento repubblicano: il sentimento nazionale come elemento unificante di appartenenza condivisa, di un destino comune.

Del resto, tempo fa, Gian Enrico Rusconi ci ha invitato a riflettere sulle conseguenze che scaturirebbero “se cessiamo di essere una nazione”. Ebbene quella che sembrava una provocazione oggi potrebbe materializzarsi. Se il progetto di autonomia differenziata nella prospettiva di dare vita ad un sistema di “poliarchia regionale”, retta su di un neocentralismo territoriale, procedesse sino alla sua realizzazione, si assisterebbe infatti alla nascita di un nuovo ordinamento a macchia di leopardo imperniato su codificate disuguaglianze istituzionali, sociali e civili che minerebbero l’unità della Repubblica , tali da gravare pesantemente quanto ai rapporti tra nord e sud del Paese, tra aree a modernizzazione avanzata e aree arretrate a modernizzazione prevalentemente assistita. Di fatto la costituzionalizzazione antirepubblicana di squilibri storici, nonché di uno sviluppo duale, ineguale.

In secondo luogo la questione di una religione civile, di un principio ideale, della necessità di orientare la vita pubblica alla luce di una vicenda che vede l’antifascismo impregnare di sè la nostra Costituzione, ben oltre la dodicesima disposizione. L’antifascismo non solo e non tanto come problema storiografico o come evocazione storica che già la festività del 25 aprile – appunto il giorno della Liberazione – ha il compito di tenere viva nella coscienza degli italiani, ma come progetto, come “tradizione generativa” di sempre nuove esperienze democratiche e di conquiste progressive, come prospettiva presente e futura. Il 2 giugno infatti “porta la cifra costitutiva di un antifascismo capace di includere e convincere, chiamando italiane e italiani ad essere protagonisti nella scrittura di nuove pagine […], uno spazio comune di possibilità riconosciute e riconoscibili”. Dunque il 25 aprile – la Resistenza – come fonte battesimale e il 2 giugno come certificato di nascita del nuovo Stato, come osservatorio – “spazio di esperienza e orizzonte di aspettative” – dal quale considerare i quasi ottant’anni di vita repubblicana, i suoi errori e i suoi progressi: un paragone che consente di valutare ciò che è vivo e ciò che è morto nel corso di un intero cammino, spingendo  a contrastare quella Repubblica afascista che una memoria indulgente, ad essere benevoli, vorrebbe propiziare. 

E ancora un problema la cui mancata soluzione determina  una preoccupante asfissia democratica:  la crisi sempre più profonda della partecipazione  alla vita pubblica, intesa qui nella accezione di un prendere parte – più che non parteggiare – alla vita associata, a partire dalle pratiche che indirizzano la convivenza, dal dovere civico del voto nelle diverse consultazioni politico-amministrative e nelle occasioni referendarie, là dove il cittadino non si limita ad attribuire una delega, ma esprime in prima persona e direttamente la propria volontà, senza mediazioni quanto alle questioni sottoposte alla sua valutazione e decisione.

Per inciso e per attenerci all’attualità: esprimere il proprio voto, in relazione ai quesiti referendari è un atto propriamente repubblicano da compiersi “contro la boria del potere”, la modalità più diretta da parte della nazione-cittadinanza di partecipare, come direbbe Ernest Renan, “al plebiscito di ogni giorno”, alla democratica manifestazione della volontà politica. Appunto come è stato il 2 giugno del 1946: una sorta di appello permanente a contrastare l’astenia democratica – un fenomeno riconducibile ad apatia del benessere , ma pure a rancore di classe –, nonché la diserzione dalle urne nell’illusione che si traduce in un astensionismo volontario come disaffezione  punitiva nei confronti di una democrazia delle promesse non mantenute, di politiche istituzionali non certamente virtuose che allontanano i cittadini dalla vita pubblica e ne confiscano la sovranità.

A questo proposito il 2 giugno può costituire un valido reagente: la democrazia della partecipazione e della rappresentanza contro la verticalizzazione del potere in chiave personalizzante, questa aspirazione ricorrente che si maschera dietro l’ipocrisia del “primato della volontà popolare” attraverso l’elezione diretta del premier. Essa secondo la narrazione della destra “metterebbe i cittadini al loro posto”, impedirebbe ribaltoni e governi tecnici”, garantirebbe comunque un “neoparlamentarismo temperato”. In realtà, attraverso il “premierato assoluto” – la legge in discussione alle Camere –, oltre ad una evidente disparità di investitura – elezione parlamentare del Presidente e popolare del premier con una palese diminutio delle prerogative del Capo dello Stato e sua riduzione a semplice notaio – si persegue il depotenziamento del Parlamento come organo di rappresentanza cui compete la responsabilità dell’indirizzo politico, nonché la disarticolazione dell’equilibrio dei poteri e dei meccanismi di contrappeso, istituiti a garanzia delle necessarie limitazioni nell’esercizio delle funzioni di Governo e a difesa da ambizioni di accentramento del potere nelle mani di un capo: una evidente alterazione in chiave gerarchico-elitaria della democrazia liberale.

Infine al 2 giugno 1946 – l’elezione di un ceto politico di alto profilo culturale e dalla indubbia eticità – si può fare riferimento come giudizio e sanzione nei confronti di un panorama oggi a dir poco deprimente, in cui latitano idealità,  moralità, competenza e la politica perde il proprio primato, trovandosi inabilitata a competere con poteri economici e finanziari, tecnocrazia, sistemi di informazione e soggetti extraistituzionali: insieme il rischio della post-democrazia e il dominio del modello neoliberista che produce diseguaglianze e comprime lo sviluppo delle opportunità. Dunque, un 2 giugno da restituire compiutamente a quanto è stato e a quanto ha rappresentato: la premessa del patto costituzionale e la promessa di una nuova Italia.                  

  • Paolo Corsini

    Già professore di Storia moderna all’Università di Parma, sindaco di Brescia e parlamentare della Repubblica. Presidente dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri, fa parte del gruppo di coordinamento della rivista web Appunti di cultura e politica.