[Ndr] La questione della difesa europea sta tornando prepotentemente sullo scenario del dibattito di questi giorni. La rivista intende affrontarla con l’attenzione che merita. Iniziamo con un articolo che abbiamo chiesto all’europarlamentare Pierfrancesco Maran, che ringraziamo. Come si noterà, è stato scritto qualche giorno fa, prima dell’intervento di Ursula von der Leyen.
Noi e la svolta degli Stati Uniti
Gli Stati Uniti d’America, si sa, hanno avuto un ruolo centrale nella creazione dell’ordine mondiale liberale in cui viviamo dal 1945 e al quale l’Italia ha preso parte con le altre nazioni europee. È stato l’impegno degli Stati Uniti, dopo la Seconda guerra mondiale, a mettere fine ai conflitti nelle due zone più critiche del mondo: l’Europa e l’Asia orientale. La loro posizione geografica, la loro ricchezza, il fatto di non doversi preoccupare degli attacchi dei vicini gli hanno permesso di dispiegare in modo permanente le loro truppe all’estero. Ed è stato questo sforzo a creare le condizioni che hanno permesso si realizzasse quell’ordine “anomalo” che ha garantito un periodo di pace, prosperità e libertà senza precedenti.
Ora, sfortunatamente, gli Stati Uniti si stanno allontanando sempre di più dal tradizionale obiettivo della loro politica estera. È da un pezzo che gli americani vogliono tornare alla “normalità” e che, una dopo l’altra, le amministrazioni Usa fanno a gara per rassicurare i loro concittadini che baderanno alla politica interna, occupandosi di politica estera il meno possibile. Il fatto è che oggi l’America non ha più la scala, la forza e neppure il consenso interno per agire come Atlante che regge sulle spalle il mondo, fungendo contemporaneamente da locomotiva economica e da garante della sicurezza militare. Anche perché la terra ha ripreso a tremare. Il sistema internazionale costruito dopo la seconda guerra mondiale è quasi irriconoscibile. La sua trasformazione, si sa, è stata innescata dalla globalizzazione economica – a sua volta favorita dalla rivoluzione tecnologica – contraddistinta da un trasferimento di ricchezza e di potere economico (storicamente senza precedenti, quando a dimensione, velocità e direzione) in corso dall’Ovest all’Est del mondo, dall’ascesa delle potenze emergenti (la Cina, l’India ecc.) e dall’influenza crescente dei nonstate actors (mondo degli affari, tribù, organizzazioni religiose e perfino network criminali).
Erano in molti poi a sperare che la Cina, sotto l’effetto della sua spettacolare crescita economica, dell’apertura al commercio internazionale e del miglioramento del tenore di vita dei suoi abitanti, si sarebbe gradualmente liberalizzata. L’apertura economica, si diceva, avrebbe inevitabilmente prodotto un’apertura politica, che i leader politici cinesi (o quelli russi) lo volessero o no. Ma non è andata così. La competizione tra le grandi potenze è tornata. Ed è riemersa la vecchia contesa tra liberalismo e autocrazia, con le grandi potenze mondiali che si allineano in relazione alla natura dei loro regimi. Inoltre, la guerra di Putin ha evidenziato che l’Unione europea e la Russia rappresentano modelli di integrazione politica ed economica – di più: due universi – che collidono. La Russia persegue una politica neo‑hobbesiana nutrita da una narrazione conservatrice: cerca di accreditarsi come custode dei valori della tradizione in contrasto con l’Occidente che si erge a baluardo dei diritti individuali. Ma ciò significa il ritorno alla politica di potenza, alla condizione precedente alla seconda guerra mondiale, in cui, come ha scritto il Wall Street Journal, “il più forte si impone sul più debole e i despoti guadagnano terreno”. Come si fa a non vedere che se il principio che ha mosso Putin – la supposta necessità di proteggere i diritti e l’incolumità della popolazione russofona – dovesse affermarsi come “normale”, la giostra è destinata a ripartire? Kaliningrad si chiamava Königsberg (la patria di Immanuel Kant), Pola è italiana. Dal nostro confine orientale a Mosca cambia lingua ogni venti chilometri. Ricominciamo daccapo? Il ritorno della vecchia storia nel cuore del continente preannuncia il ritorno della guerra come strumento ordinario della politica. Putin non è un attore tra i tanti, è uno spettro del passato.
Tornato alla Casa Bianca, anche Donald Trump sembra intenzionato a smantellare quel sistema globale che gli Stati Uniti hanno passato gli ultimi 80 anni a costruire. Dichiaratamente, il principio organizzativo della sua politica estera è il perseguimento con metodi aggressivi dell’interesse nazionale degli Stati Uniti senza distinzione tra nemici e amici, sfruttando la forza del paese per dominare le nazioni più piccole e più deboli. Nel discorso di insediamento, Trump ha riportato addirittura in auge l’Imperialismo del XIX secolo. “Non c’è niente di nuovo – ha scritto Andreas Kluth su Bloomberg – in questa visione del mondo; è semplicemente un ritorno alla norma storica negli affari internazionali, che gli studiosi chiamano anarchia e che a volte può assomigliare a un ring di pugilato. Oggi più che mai, questa impostazione di default può adattarsi alle grandi potenze. Ma le nazioni più piccole ovunque dovrebbero rileggere il capitolo di Tucidide sul saccheggio di Melo e rabbrividire”.
La difesa europea torna questione cruciale
Ma se così stanno le cose, se la giungla è destinata a ricrescere, se gli Stati Uniti appaiono sempre meno come tutori affidabili dell’ordine liberale, non sarebbe ora che gli europei smettessero di eludere il problema delle politiche di difesa?
La Ue è ancora più un insieme di stati nazionali che una comunità pienamente integrata e la sfida principale deriva appunto dalla disunione europea. Il problema, per capirci, non sono i soldi, cioè la quantità di denaro che i Paesi europei devolvono alla sicurezza nazionale (i membri europei della Nato hanno quasi quattro volte la popolazione della Russia ed il loro Pil congiunto è più grande di almeno 12 volte). Il problema è che non spendono questi fondi in modo efficace e non coordinano le loro attività di difesa quanto potrebbero. E certamente gli europei non si cimenteranno nel duro lavoro per creare una autentica capacità paneuropea di difesa se restano convinti che lo zio Sam resterà nei paraggi pronto a tirarli fuori dai guai.
Il guaio è che in materia di difesa e sicurezza, la “volontà politica” è tutto. Anche perché, come ha ricordato molte volte il generale Giuseppe Cucchi, per poter dar vita ad una Difesa europea dobbiamo risolvere diversi problemi. A cominciare proprio dall’esistenza di un’altra organizzazione internazionale, la Nato, “che si presenta ormai da decenni come l’incontrastata ed efficace monopolista del mercato della difesa e della sicurezza occidentale”; senza contare gli ostacoli che derivano “dalla presenza in Europa di industrie per la difesa che, al di là di tutti gli accordi di coproduzione e del tentativo di razionalizzarne l’output compiuto anni fa creando in ambito Unione una Agenzia Europea degli Armamenti (Eda), sono rimaste essenzialmente nazionali” (la parcellizzazione dell’industria degli armamenti nel vecchio continente è un problema noto da tempo) e dalla “difficoltà di integrare nel sistema la componente nucleare costituita dalla ‘Force de frappe’ francese, ultima risorsa atomica rimasta all’Europa dopo la secessione del Regno Unito”. Niente, tuttavia, di insormontabile. Secondo Cucchi, “col tempo la Germania potrebbe infatti crescere e, prendendo coscienza di se stessa, assumere in ambito europeo lo stesso ruolo che gli Stati Uniti svolgono in sede Nato. All’Agenzia per gli armamenti potrebbero essere affidati poteri di razionalizzazione del contesto produttivo generale, cercando magari di compensare con una maggiore aggressività sul mercato internazionale ciò che le nostre industrie perderebbero su quello europeo” e la dottrina del nucleare francese “dovrebbe nel contempo esser fatta evolvere verso il concetto di ‘dissuasione condivisa’”.
La politica estera comune nodo cruciale
Il vero ostacolo rimane però l’assenza di una politica estera comune dell’Unione. “Sapete bene – ha detto Tusk rivolto al Parlamento europeo – che se oggi avessimo un esercito europeo, la discussione principale riguarderebbe il leader, chi è il comandante in capo, dove inviare l’esercito. Il mio intuito mi dice che se fosse Budapest a decidere, l’esercito europeo andrebbe purtroppo in una direzione diversa rispetto a quella che avrebbe preso se a decidere fosse stata Varsavia”. Ma siamo in ballo e toccherà ballare. Anche perché la guerra di aggressione di Putin ripropone questioni più di fondo. La politica internazionale è fatta anche di scelte e di giudizi morali e le sfide che abbiamo di fronte non fanno eccezione. Quando, dopo Monaco e la Kristallnacht, Roosevelt e un numero crescente di americani, conclusero che “il regime nazista era troppo insaziabilmente aggressivo e inaffidabile per essere incorporato in un ordine europeo stabile e governato dalle regole”, quel giudizio, come ha spiegato Robert Kagan, “aveva più a che fare con l’ordine globale che con la sicurezza nazionale americana. Riguardava il tipo di mondo nel quale gli americani avrebbero voluto vivere”. Quando poi decisero che la guerra era preferibile al cambiamento dell’equilibrio di potenza a vantaggio delle dittature, gli americani ritenevano ovviamente di essere nel giusto. Ma, ribadisce Kagan, “gli americani erano nel giusto solo se si pensa che il liberalismo sia giusto e che gli avversari del liberalismo abbiamo torto. Senza questo giudizio morale, l’ordine mondiale che gli americani volevano sostenere, e i mezzi che usarono per sostenerlo, non erano più giusti di ogni altro ordine mondiale stabilito e difeso con la forza. Era semplicemente migliore per gli americani e per quanti condividevano la loro fede liberale”.
In Europa siamo arrivati a considerare la pace, la sicurezza, la democrazia, come cose scontate: la conseguenza, ovvia, dell’evoluzione del genere umano. E abbiamo dimenticato quanto sia costata l’affermazione dell’ordine liberale internazionale, i mali che ci ha risparmiato e che quell’ordine non è stato un fenomeno “naturale”. Ma anche per noi è tempo di prendere atto che mantenere la pace comporta un costante coinvolgimento e un consistente esercizio del potere (americano e, alla buonora, anche europeo). E non sarà facile. A differenza dell’Europa di Monaco, tuttavia, quella di oggi potrebbe vincere abbastanza facilmente contro Putin ma non vuole, perché non ci crede, perché non ha più chiaro neppure quello su cui si vince e si perde. Lo racconta con grande efficacia Marco Ferrante nel suo ultimo romanzo, “Ritorno in Puglia”, inseguendo le riflessioni di Bernardo Bleve all’epoca della guerra del Kosovo: “Per ora, il risultato peggiore della guerra stava nel segnale che gli Stati Uniti e i paesi europei, l’Occidente, il nostro mondo lanciava a tutti quelli che stavano fuori. Il sistema più straordinariamente ricco della storia, il sistema che aveva inventato l’energia moderna e ne aveva accumulata tanta da cambiare la faccia al pianeta, non era in grado di sopportare la Morte in nome di sé stesso: non era più grado di difendere un principio mettendo a rischio vite umane e non solo la propria. Non poteva sacrificare neppure quelle degli altri. Che cosa sarebbe accaduto se avessero bombardato Londra o Berlino? Ma davvero cinquanta anni di pace e di benessere ci avevano così cambiati?”.
(Foto di Markus Spiske su Unsplash)