Un’economia stagnante, con occupazione povera

A fine 2024 le stime dell’Istat hanno rivisto al ribasso l’andamento del Pil italiano: +0,5% nel 2024, la metà di quanto previsto dal Governo. Il trend deludente, confermato a inizio 2025 dall’Eurostat, è il frutto del rallentamento della seconda metà dell’anno, quando il Pil italiano è rimasto sostanzialmente fermo (sia nel terzo che nel quarto trimestre la variazione è stata inesistente, pari allo 0% secondo Eurostat). L’Italia si trova quindi in una situazione che sfiora, tecnicamente, la stagnazione (questa si verifica quando il Pil reale diminuisce per due trimestri consecutivi). Risalta, in questo quadro, il settore industriale: la produzione in recessione ormai da due anni, nel 2024 ha fatto registrare -3,5%.

Meglio di quello italiano è andato il Pil della media dell’eurozona (+0,7%) e dell’Unione Europea (+0,9%), ma non quello della Germania (-0,2% nel quarto trimestre). Significa che, anche in termini relativi, nella seconda metà del 2024 l’Italia ha ricominciato il suo declino, adesso insieme alla Germania, anche lei un grande malato d’Europa. Il paese campione di crescita nel 2024 è stata invece la Spagna, che ha fatto registrare un impressionante +3% (in accelerazione, +3,5% nel terzo e quarto quadrimestre). Da notare che il governo Sanchez si caratterizza per scelte di politica economica molto diverse da quelle del governo Meloni: investimenti cospicui nella transizione energetica, in larga parte attraverso i fondi del Pnrr, rafforzamento dei salari e tutela dei diritti del lavoro, oltre l’avvio di una coraggiosa tassazione progressiva sui grandi patrimoni che è servita a rafforzare il welfare.

Va detto che, nel caso italiano, alla stagnazione del Pil non sembra corrispondere quella dell’occupazione, dove si evidenzia invece una crescita. Attenzione, però. Intanto il numero di occupati in aumento, nel 2024 (+1,2%, misurato in unità di lavoro, rispetto al 2023), frena considerevolmente nel quarto trimestre (+0,1%) e ancora di più nell’ultimo mese dell’anno (0%). Secondo, a ben vedere quest’incremento altro non è che la coda di un trend cominciato nel 2008, che dura quindi da più di tre lustri (al netto del Covid) e, semmai, adesso giunge al termine. Terzo, soprattutto, si configura come esito di uno spostamento dell’occupazione dall’industria ai servizi, in comparti generalmente meno pagati: l’aumento degli occupati fa il paio con l’espansione del lavoro povero e anche con la diminuzione delle ore medie lavorate per addetto. E si traduce, naturalmente, nella diminuzione della produttività del lavoro (per definizione: il Pil cresce meno degli occupati). Detta altrimenti: il record raggiunto nei livelli d’occupazione sotto il governo Meloni è l’ultimo tratto di un cammino di lungo periodo che, proprio con questo governo, pare essersi interrotto; e comunque non è una traiettoria benaugurante, se guardiamo al posizionamento dell’Italia nelle catene del valore internazionale, alla capacità di creare innovazione e quindi di generare reddito e benessere.

È da notare poi che siamo entrati in «quasi stagnazione» nonostante i fondi del Pnrr. Non vi è dubbio al riguardo che, se togliessimo lo stimolo degli investimenti europei (ritardati, peraltro, per le diverse riscritture e cambi di governance frutto di avvicendamenti politici), il debole segno positivo registrato nel 2024, e limitato alla prima parte dell’anno, si trasformerebbe in negativo. Ma soprattutto, tutto ciò si verifica in un quadro globale che tra fine 2024 e inizio 2025 è diventato molto più complicato, soggetto a una ridefinizione delle relazioni internazionali di portata epocale. In questo nuovo scenario, i dazi dell’amministrazione Trump renderanno, con ogni probabilità, il 2025 ancora più critico, per la nostra economia come per quelle di tutta Europa; vale la pena ricordare che, se pure l’Italia di Meloni riuscisse a spuntare dall’amministrazione Trump un trattamento di favore nei dazi (cosa tutt’altro che scontata), ad esempio con tariffe più basse per alcune produzioni riconducibili prevalentemente al nostro Paese, noi risentiremmo comunque, in negativo, dei danni che i maggiori dazi provocheranno alle altre economie europee, a partire dai prodotti finiti dell’industria tedesca cui siamo strettamente legati (nella componentistica). Si possono aprire anche delle opportunità, beninteso: in prospettiva, almeno, un’eventuale pace in Ucraina – posto che ci si arrivi – potrebbe fare abbassare i prezzi dell’energia; e l’attitudine aggressiva dell’amministrazione Trump potrebbe riorientare sulle piazze europee capitali e investimenti da altri continenti.

Non si investe sui fondamentali dello sviluppo

Al netto di queste speculazioni, di sicuro vi è solo un fatto: viviamo in un contesto geopolitico estremamente incerto. In una situazione del genere, quello che occorrerebbe fare è cercare di attrezzare il Paese al meglio in modo da affrontare qualsiasi eventualità. In che modo? Investendo nei fondamentali dello sviluppo economico, in cui l’Italia è visibilmente carente nei confronti con gli altri paesi avanzati (istruzione, ricerca, amministrazione); con politiche che riducano le disuguaglianze (personali e anche generazionali, geografiche e di genere) e che promuovano, tanto nell’industria quanto nei servizi, la crescita dimensionale delle imprese, la competitività e l’innovazione; con una programmazione che valorizzi quei settori in cui possiamo avere un vantaggio comparato, specie rispetto ai nostri partner europei, ad esempio le energie rinnovabili (solare, eolico off-shore) e l’economia circolare. In tutti questi ambiti, tuttavia, il governo Meloni ha imboccato una strada opposta a quella che sarebbe utile al Paese.

Da un lato, nell’ultima legge di bilancio troviamo tagli ai ministeri, di tipo lineare (cioè l’austerità, senza un criterio selettivo), con poche eccezioni. Fra l’altro, vengono colpiti settori fondamentali per le prospettive economiche dell’Italia come l’istruzione e la ricerca, mentre la spesa sanità, pur leggermente rifinanziata, finisce per diminuire in rapporto al Pil, avvicinandosi a quella soglia (6%) considerata critica per la sopravvivenza di un sistema pubblico universale. Dall’altro, questo governo continua ad alimentare un incoerente regime di disuguaglianza fiscale. Un regime in cui, per prima cosa, attraverso il forfettario gli autonomi pagano molte meno tasse dei lavoratori dipendenti e vengono per giunta incentivati a evadere (sia per mantenersi sotto la soglia del forfettario, sia perché hanno la ragionevole prospettiva di una rottamazione delle cartelle). E dove poi, secondo punto, per il 5% dei redditi più alti l’aliquota complessiva inizia a diminuire, tanto che per il 2% più ricco questa diviene addirittura più bassa di quella pagata dai due terzi degli italiani: grazie alle flat tax (sui redditi da capitale, che diventano predominanti nelle fasce alte) e alle numerose detrazioni. Detta altrimenti, nel nostro regime fiscale manca sia l’equità orizzontale (a parità di reddito tutti i contribuenti dovrebbero pagare la stessa aliquota), sia quella verticale (chi ha più reddito dovrebbe pagare nell’insieme una percentuale maggiore di tasse). Ma è da notare che questo assetto, oltre a risultare ingiusto, favorisce la rendita e incentiva gli imprenditori a rimanere piccoli, anziché a crescere: non è quindi solo eticamente e socialmente discutibile, ma aggrava i mali del nostro sistema industriale, mentre sottrae al fisco risorse fondamentali per potenziare quei fondamentali dello sviluppo in cui siamo carenti.

In aggiunta, risalta la gestione errata di alcune partite cruciali. Primo, l’investimento più significativo che il governo ha messo in cantiere è il ponte di Messina. Un’opera faraonica di dubbia fattibilità e ancor più dubbia utilità: non servirà a molto fino a quando non si risolveranno i problemi strutturali del Mezzogiorno che, in teoria, sono ben più semplici da affrontare, e urgenti (dalla viabilità ordinaria alle ferrovie, alle reti idriche). Il governo invece comincia dalla testa e mina la base, dato che per costruire il ponte sottrae risorse alle rimanenti infrastrutture. Secondo, il piano Industria 5.0, l’agevolazione per gli investimenti delle imprese realizzati nel 2024 e 2025, si è rivelato a oggi un serio fallimento, per via di procedure troppo complicate: si pensi che dei 6,3 miliardi stanziati, finora sono stati spesi solo 400 milioni. Il governo in pratica ha aumentato la burocrazia, invece di diminuirla, con il risultato di azzoppare la già fragile industria italiana.

Lo svilimento e la precarizzazione del lavoro sono parte di questo quadro. Con il collegato Lavoro del dicembre 2024, ad esempio, il Governo ha introdotto la possibilità di utilizzare senza limiti e vincoli i contratti in somministrazione e i contratti stagionali; in aggiunta, nel 2023 aveva già liberalizzato i contratti a termine, le occupazioni intermittenti e i voucher. Ecco perché la povertà aumenta, nonostante l’espansione dell’occupazione nel corso del 2024. Ma attenzione: in questo modo, di nuovo, si danno gli incentivi sbagliati al sistema, perché si favoriscono le imprese che utilizzano lavoro precario, nei settori meno produttivi, invece di puntare sugli investimenti e la qualità (a maggior ragione, dato il fallimento di Industria 5.0). Un discorso analogo vale per gli investimenti per l’ambiente e le energie rinnovabili, molto ridimensionati dall’attuale governo, mentre potrebbero essere il cuore di una efficace politica industriale, dati anche i vantaggi comparati del nostro Paese e le capacità e sinergie di alcune nostre imprese pubbliche (Enel, Eni, Terna, Saipem). Così come per la scarsa volontà di riformare in senso concorrenziale alcuni settori (balneari, tassisti), per l’influenza di cui godono alcuni gruppi di consenso.

Spese per la difesa? Hanno senso solo in un’Europa unita

Vi è poi, ma non ultima, la questione delle spese per la difesa. Non è un problema solo dell’Italia, naturalmente. Ma proprio l’Italia rischia di essere, su questo, il problema. La difesa è un settore che, se rimane a livello nazionale, per ciascun paese europeo risulta inefficiente, date le considerevoli economie di scale e di scopo che lo caratterizzano. Occorre quindi creare una difesa comune europea, cioè unificare gli attuali eserciti e apparati nazionali. Ma, ovviamente, la difesa comune europea dovrebbe essere parte essenziale di una nuova Europa federale, con un fisco altrettanto comune e il superamento del diritto di veto dei singoli stati. Ci si può arrivare con un assetto a due velocità, cioè con le cooperazioni rafforzate (come avvenuto già con l’euro), ma anche questa strategia richiederebbe che almeno i principali paesi si mettano insieme, auspicabilmente da subito, per tracciare la strada. Va detto che nessun governo rinuncia facilmente al diritto di veto, ma proprio quello italiano, su questo, appare il più recalcitrante, per il suo impianto politico di fondo – nazionalista. La strada alternativa alla difesa comune europea è, invece, l’aumento nazionale delle spese per il settore, magari in deroga al patto di stabilità (o anche avvalendosi di debito europeo): ma oltre a essere più dispendioso, ciò non garantirebbe affatto l’autonomia strategica dell’Europa; si tradurrebbe anzi, probabilmente, in maggiori acquisti dagli Stati Uniti e quindi in una persistente dipendenza. Anche per il suo legame con l’amministrazione Trump, fra i grandi paesi europei il governo Meloni sembra quello più propenso a percorrere questa seconda strada: che finirà per tradursi in un dispendio considerevole di risorse, in ogni caso sottratte ad altri capitoli fondamentali, e con ogni probabilità senza raggiungere gli obiettivi desiderati.

Sia per la composizione della propria base elettorale (che favorisce i mali storici del nostro sistema imprenditoriale, mentre ostacola gli investimenti nei fondamentali dello sviluppo e una equa e razionale riforma fiscale), sia per i suoi connotati politico-ideali (nazionalismo, pure in un quadro europeo, e relativa vicinanza all’amministrazione Trump; diffidenza per le politiche ambientali e per quelle industriali in genere), l’attuale governo appare quindi indirizzato lungo un cammino contrario all’interesse nazionale. Le conseguenze cominciano a palesarsi.

(Foto di Towfiqu barbhuiya su Unsplash)

  • Ordinario di Politica economica all’Università Iulm di Milano.