Il titolo è sobrio e asciutto, come il suo autorevole autore: “La Costituzione” di Valerio Onida. Un testo pregevolissimo che l’editore, il Mulino, e la curatrice, Marta Cartabia, già presidente della Corte costituzionale e allieva di Onida, hanno avuto il merito di rieditare, con un saggio in calce a firma della curatrice che, efficacemente, fissa la lezione del suo maestro e, aggiornando sul dibattito costituzionale, ne mostra la permanente validità.
In quel saggio, con il nitore e la singolare capacità di sintesi dell’autore, si ricostruiscono la genesi e lo sviluppo del costituzionalismo contemporaneo, forse la più preziosa conquista della nostra civiltà giuridica e politica. Un filo rosso che, a partire dalla Costituzione americana di fine settecento, conosce la sua più feconda stagione con le Costituzioni democratiche europee del secondo dopoguerra. Tra loro quella italiana. Esse fecero segnare una rottura rispetto ai regimi assolutistici precedenti. Incorporando la separazione tra i poteri, lo Stato di diritto, democratico e sociale. Onida, in forma icastica, nota che l’idea-forza del costituzionalismo, la più significativa novità da esso introdotta, può essere fissata in una formula: porre un limite al potere di chi comanda. Basterebbe questo a confutare le dilaganti spinte alla verticalizzazione e alla concentrazione del potere che soggiacciono a riforme che, a ben vedere, guardano al passato piuttosto che al futuro.
Onida, onde fugare confusione ed equivoci, ha cura di fissare innanzitutto l’idea-concetto di Costituzione. Ovvero il “patto di convivenza”, la “legge fondamentale” (come amano chiamarla i tedeschi), il quadro di principi e di regole che presiedono alla “vita nella casa comune dentro la quale siamo chiamati ad abitare insieme” (Moro). Di qui alcuni corollari. Primo: la Carta è fattore di unità e di stabilità. Gli indirizzi politici cambiano, le maggioranze si alternano utilmente se e quando tutti ci si riconosce in quei principi e in quelle regole comuni. Secondo: le Costituzioni che resistono alla prova del tempo mostrano così di essere buone. La durata attesta la loro validità. Il loro carattere “presbite” è una qualità. È la prova, appunto, che esse hanno corrisposto alla loro natura e funzione: unire e stabilizzare. Terzo: esse possono essere aggiornate – ci mancherebbe – ma Onida diffidava del “mito delle grandi riforme”, nella consapevolezza che le Costituzioni nascono dentro un “crogiolo ardente” (Dossetti); che esse sono di regola il prodotto di eventi storici “rivoluzionari”, non di alchimie da laboratorio. Di qui la contrarietà di Onida a velleitarie assemblee costituenti, delle quali non sussistono le condizioni storiche, etiche, culturali. Quarto: la convinzione solo all’apparenza contraddittoria che la preziosa “rigidità” della Costituzione (strumento di garanzia che può essere emendato solo con procedure aggravate, maggioranze larghe, tempi distesi) si coniughi con una sua plasticità ovvero con una sua interpretazione incrementale ed evolutiva. Mi spiego: ovvio che, per esempio, la tavola dei diritti si arricchisca con il tempo (bene la recente immissione del tema ambientale), ma non è necessario inseguire tutti e singoli i “nuovi diritti”; molti, nella loro sostanza, sono contemplati in quelli già enunciati. Quinto: mi ha sempre colpito la serenità e la fiducia di Onida, la sua inclinazione a non drammatizzare il conflitto politico, a confidare che esso potesse essere sempre suscettibile di temperamento e di composizione. Per due ragioni, immagino: la scommessa sul confronto-dialogo tra persone ragionevoli e oneste e il presidio delle regole della convivenza a cominciare dalla regola costituzionale e degli organi terzi chiamati a garantirne l’efficacia. In primis la Corte costituzionale cui egli ha dedicato alcuni suoi studi e poi il suo servizio quale giudice e poi presidente.
Questa alta lezione di vita e di dottrina di un maestro del diritto costituzionale è efficacemente riassunta e attualizzata da Marta Cartabia nell’introduzione e nel saggio conclusivo. La quale, in particolare, si sofferma su due punti: a) sulla circostanza che lo stato di eccezione, non formalmente menzionato nel nostro ordinamento, abbia potuto e possa essere gestito a Costituzione vigente; b) prima e più delle declamate riforme, sarebbe utile applicarsi a rimediare agli “scostamenti” da essa, a cominciare dalla mortificazione del parlamento. Detta più semplicemente: la priorità sta ancora nell’incompiuta attuazione della nostra Carta fondamentale.