Il primo gennaio del 2023 si è insediato a Brasilia, davanti al Congresso nazionale, il terzo governo di Luiz Inácio Lula da Silva. Sindacalista di lungo corso e leader del partito dei lavoratori (PT), Lula ha guidato il paese per due mandati, dal 2003 al 2010. Fautore di innovative politiche sociali e di programmi di sviluppo, a livello interno, promotore dell’integrazione regionale e di una politica di equilibrio tra appartenenza ai G20 e ai BRICS, a livello internazionale, Lula fu tra i principali protagonisti della cosiddetta «onda rosa» latinoamericana. Grazie anche a una buona fase congiunturale, il Brasile sperimentò per quasi un decennio una fase di crescita, diventando la dodicesima economia a livello di Pil. Nonostante la significativa riduzione degli indici di povertà estrema e il consolidarsi dei ceti medi urbani, restò però il problema strutturale della polarizzazione della ricchezza, testimoniata dall’indice Gini più squilibrato tra le prime venti economie mondiali. La situazione si fece via via più complicata nell’ultima fase del secondo mandato, complici una serie di problemi in ambito infrastrutturale, il calo del prezzo delle materie prime, la frattura con la sempre più potente agro-industria da esportazione e una serie di scandali che cominciarono a investire esponenti del governo e dello stesso PT. La vittoria della sua «delfina» Dilma Roussef (2011-2016) coincise infatti con una fase di crisi economica, proteste sociali e inchieste per corruzione che accompagnarono i delicati appuntamenti con i mondiali di calcio del 2014 e i Giochi olimpici del 2016 (il sogno del «primo mondo»).
La presidenza Roussef si chiuse quindi traumaticamente, con una procedura di impeachment, sull’onda degli sviluppi dello scandalo Odebrecht e dell’inchiesta Lava Jato, coordinata dal giudice Sergio Moro, incentrata sulle attività illecite dell’impresa petrolifera nazionale Petrobras. Il presidente interino, il centrista Michel Temer (a sua volta coinvolto nell’indagine), si impegnò a riallineare rapidamente la politica brasiliana agli interessi degli Stati Uniti trumpiani, in una fase caotica – tanto politicamente quanto a livello economico – mentre crescevano pericolosamente gli indici di violenza, sia da parte delle gang criminali che delle forze dell’ordine. Uno scenario che ha generato paure e, in un clima di crescente confusione, ha finito per aprire la strada al successo di un candidato fino a pochi anni prima improbabile: l’ex militare (ed ex golpista) di origine italiana Jair Bolsonaro, fervente sovranista, esplicitamente razzista, misogino e ultranazionalista. La sua ascesa è stata facilitata da un abile e spregiudicato utilizzo dei social network, dal sostegno aperto di buona parte della bancada evangelica, dalla capacità di cavalcare le paure dei nuovi ceti medi ma anche dal discredito caduto sulla politica nazionale e, concretamente, dall’estromissione dalla campagna elettorale di Lula, arrestato nell’ambito di un’altra inchiesta per corruzione.
Da Bolsonaro a Lula
Il mandato di Bolsonaro (2019-2022) ha acuito la tendenza alla polarizzazione politica del paese, adattando il modello trumpiano al contesto brasiliano (con una certa capacità mimetica efficace a trovare le parole d’ordine più adatte ai diversi contesti regionali della federazione), in uno scenario connotato da un ritorno sulla scena di alcuni esponenti «scomodi» delle forze armate. A questo si è accompagnata la costante esibizione di scelte marcatamente ideologiche in ambiti particolarmente sensibili per il paese sudamericano: dalle politiche ambientali alla sicurezza, dagli interventi sociali alla questione indigena, senza dimenticare la pessima gestione della pandemia, in particolare nella prima metà del 2020. In politica estera la discontinuità con il recente passato si è tradotta nella sospensione immediata del confuso processo di integrazione latinoamericana, mentre a livello di aree di libero commercio internazionali gli appelli sovranisti sono svaniti come neve al sole. Un esempio concreto: nonostante i ripetuti proclami anticomunisti del presidente, la special partnership commerciale con Pechino si è ulteriormente rafforzata.
In vista delle presidenziali del 2022, riammesso alla corsa presidenziale, Lula ha sfidato Bolsonaro in un’intensa campagna elettorale, riaggiornando la sua composita alleanza (a livello politico, sociale e regionale) con una serie di partiti di centro e di sinistra e stringendo un patto di ferro con il potente ex governatore di São Paulo (2001-2006, 2011-2018), Geraldo Alckmin Filho. L’ambizioso piano per la ricostruzione nazionale ha permesso a Lula di cavalcare una serie di temi particolarmente urgenti, quali la riforma del settore sanitario e dell’educazione di base, la ripresa del piano Bolsa Familia e dei programmi infrastrutturali, oltre all’argomento più sensibile a livello internazionale, il rilancio di politiche di tutela ambientale da utilizzare anche come motore del processo di integrazione regionale.
Al termine di una contesa politica tutt’altro che scontata, Lula si è imposto al secondo turno, il 30 ottobre, con il 50,9% dei voti, contro il 49,1% di Bolsonaro. Nonostante la piena conferma dell’esito elettorale da parte della Corte suprema (il 12 dicembre), la profonda polarizzazione ha fatto temere una reazione scomposta da parte dei bolsonaristi più radicali (circa duecento persone si accamparono davanti alla sede dello Stato maggiore e alcuni sindacati dei camionisti minacciarono una paralisi delle arterie strategiche) e di frange delle forze armate (alcuni generali si lasciarono andare a commenti poco rassicuranti). Gli attacchi alla regolarità del voto hanno circolato principalmente via social network (in alcuni casi alimentati direttamente da elementi dello staff presidenziale), lasciando che la breve transizione si ammantasse di un clima di calma sospesa.
I tumulti dell’8 gennaio
Il 1° gennaio del 2023, la cerimonia di insediamento di Lula è iniziata con un minuto di silenzio per Benedetto XVI e Pelè, morti poche ore prima: il papa promotore della Conferenza di Aparecida del 2007 (un appuntamento decisivo per l’allora cardinal Bergoglio) e il mito della seleção (appena eliminata mestamente ai mondiali in Qatar), celebrato due giorni dopo nello stadio del Santos. Quel 1° gennaio a Brasilia mancava polemicamente l’uscente Bolsonaro, mentre tra gli ex presidenti erano presenti solo Dilma Roussef e José Sarney (1985-1990), protagonista della transizione seguita alla lunga dittatura militare iniziata nel 1964. Per l’occasione si sono stretti attorno a Lula i leader delle nuove sinistre latinoamericane – dal cileno Gabriel Boric al boliviano Luis Arce, dal colombiano Gustavo Preto all’argentino Alberto Fernández – mentre erano presenti, tra gli altri, il presidente uruguagio (di centro-destra) Luis Lacalle, il tedesco Steinmeier, il portoghese Rebelo de Sousa, , il re di Spagna Filippo VI, il vicepresidente cinese Wang Qishan, il ministro degli Esteri messicano Marcelo Ebrad e quello degli Interni statunitense, Deb Haaland. Spiccava l’assenza di alte figure istituzionali italiane, un dato politico da noi sottostimato e finanche paradossale, a fronte delle importanti relazioni economiche tra Roma e Brasilia. La cerimonia era stata studiata con attenzione per portare sul proscenio una serie di esponenti simbolici del Brasile lulista: un leader indigeno, il kaiapo Raoni Metuktire, un attivista per i diritti sociali, Ricardo Barón, una portavoce degli «ultimi», l’afroamericana Aline Sousa, leader del Movimento Nacional dos Catadores de Materiais Recicláveis, nonché maestri rurali e rappresentanti del mondo giovanile, operaio, artigianale, sindacale, sportivo… provenienti da diverse aree rappresentative della federazione (mancavano invece esponenti del Movimento Sem Terra, preziosi nella prima campagna presidenziale).
L’insediamento del nuovo presidente e del suo esecutivo che, in esplicita rottura con il recente passato, ha visto la reintroduzione di un ministero per i popoli indigeni e la riorganizzazione del dicastero dell’Ambiente e del cambiamento climatico (assegnati rispettivamente alla araribóia Sônia Guajajara e all’ambientalista Marina Silva), hanno ricevuto una modesta copertura mediatica in Europa (quasi nulla in Italia) per essere fagocitati di lì a poco dalla rapida evoluzione degli eventi.
L’8 gennaio, infatti, il Brasile avrebbe fatto nuovamente irruzione sui media globali, con le immagini e i video della rumorosa occupazione dei simboli istituzionali da parte dei bolsonaristi. A una settimana dall’insediamento presidenziale, mentre Jair Bolsonaro si trovava in Florida (ufficialmente per cure sanitarie) alcune migliaia di sostenitori del presidente uscente (si stimano almeno 4.000) hanno assaltato la sede del Congresso, della Corte suprema e il palazzo presidenziale di Planalto, occupando simbolicamente la piazza dei Três Poderes. Tornava dunque a vibrare quell’enorme spazio aperto, pensato a metà anni Cinquanta da Roberto Burle Max, Lúcio Costa e Oscar Niemeyer come il simbolo urbanistico della pace nazionale, ritrovata nella nuova capitale del Brasile desarrollista di Juscelino Kubitschek, appena pochi anni prima del golpe del generale Castelo Branco contro il suo successore João Goulart, in piena guerra fredda latinoamericana.
Mentre i «patrioti» di Bolsonaro saccheggiavano i luoghi simbolo delle istituzioni nazionali, lasciandosi andare a ripetuti atti vandalici, tornavano alla mente le sequenze grottesche girate a Brasilia del film (del 1992) Il viaggio dell’argentino Pino Solanas. Anche se il Congresso era chiuso e il presidente si trovava in visita ad Araraquara, nello Stato di São Paulo, per alcune ore si è temuto il peggio. Lula ha quindi firmato in corsa un decreto di Stato d’assedio, facendo ricorso all’art. 34 della Costituzione federale, mentre le forze dell’ordine impiegavano quasi cinque ore per riassumere il controllo della situazione, procedendo a centinaia di arresti (nei giorni successivi sarebbero saliti a circa 1.200).
L’effetto farfalla
«Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?» si chiedeva nel 1972 il meteorologo e matematico statunitense Edward Lorenz, fautore della teoria del caos. In una fase in cui l’America latina appare sospesa tra processi di stasi (il Venezuela di Maduro), di attesa (l’iter costituzionale cileno e l’implementazione del processo di pace colombiano) e turbolenze (il Perù, segnato dagli scontri violenti tra esercito e sostenitori del presidente rimosso, Pedro Castillo), la tenuta politica del più importante paese sudamericano appare cruciale. Dietro all’irruzione scomposta dei pittoreschi estremisti di destra arrestati a Brasilia, imitati da piccoli gruppi di facinorosi che hanno bloccato le autostrade negli stati di Mato Grosso e Paraná, da più parti si è infatti temuta una ben più pericolosa messa in moto di un’azione golpista da parte di settori delle forze armate. Se infatti nelle vicende dell’8 gennaio erano evidenti ed espliciti (a cominciare dagli atti vandalici esibiti e dagli insulti alla stampa) i rimandi all’occupazione di Capitol Hill del 6 gennaio del 2021 da parte dei sostenitori di Donald Trump, tutti gli analisti sono corsi a evocare il fantasma del possibile coup militare.
Non a caso, mentre la polizia brasiliana era ancora impegnata nei fermi, Biden, López Obrador e Trudeau hanno immediatamente lanciato un comunicato congiunto, ribadendo il pieno sostegno dei paesi dell’Umsca (ex Nafta) al presidente eletto, imitati a ruota dal segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, dal segretario dell’Osa, Luis Almagro e dal rappresentante dell’Unione Europea, Joseph Borrell. Nonostante le serie preoccupazioni delle prime ore, mentre Bolsonaro prendeva velocemente le distanze dalle vicende via Tweet, è apparso chiaro che il sistema avrebbe tenuto e Lula ha ricevuto il conforto pubblico dei vertici delle forze armate e dei giudici della corte suprema, per denunciare, di lì a pochi giorni, connivenze nell’apparato di sicurezza. I sospetti si sarebbero poi concentrati sulle figure del capo della polizia del Distrito federal, Flavio Augusto Vieira e, soprattutto, dell’ex ministro federale della Giustizia e della pubblica sicurezza, Anderson Torres. Da pochi giorni nominato responsabile dell’ordine pubblico del Distrito Federal, Torres è fuggito a Orlando (ancora in Florida) alla vigilia dell’attacco. Contro di lui è stato quindi emesso un mandato d’arresto con richiesta di estradizione, dopo che la Polizia federale ha trovato tra le sue carte la bozza di un piano apparentemente golpista, finalizzato ad annullare l’esito del voto di ottobre e a legittimare la nomina di un governo di sicurezza nazionale. Dalle inchieste sugli arrestati emergeva nel frattempo un quadro di scarsa militanza politica, una diffusa tendenza all’inconsapevolezza e una generale dipendenza da fake news e rituali sociali tipici del mondo virtuale di internet.
Cosa è dunque accaduto l’8 gennaio? Un tentativo maldestro di emulazione, un’azione simbolica, un ballon d’essai per testare la solidità politica della democrazia brasiliana? Oppure timide prove di reali fermenti golpisti? il quadro non appare ancora chiaro e apre alcune incognite, spingendo Lula ad annunciare un giro di vite in materia di sicurezza nazionale, ammettendo falle ma rassicurando il paese sulla fedeltà delle forze armate. Dopo un decennio di rovesciamenti politici anomali, sospesi a metà tra segni di golpe e più democratiche dispute istituzionali (dall’Honduras 2009 alla Bolivia 2019, passando per Venezuela, Perù, Paraguay…), il futuro della prima economia regionale (il Brasile nel 2022 si è confermato 12° paese per Pil, davanti al Messico, 15°, e all’Argentina, scesa al 24°) resta decisivo per comprendere il reale grado di maturazione democratica di questo subcontinente dal potenziale ancora inespresso.
(Foto di Luan de Oliveira Silva su Unsplash)